Qualche giorno fa Adriano Sofri sul Foglio ha ricordato l’essenziale: «Con i soldi di un solo caccia-bombardiere si potrebbero costruire 143 asili nido, e dare lavoro a oltre 2.150 persone. Si potrebbero creare ospedali, scuole, biblioteche. Volta la carta. Con un solo caccia-bombardiere si potrebbero distruggere 143 asili nido, e togliere il lavoro a oltre 2.150 persone».

Non è solo la rincorsa al riarmo che preoccupa, ma già ci sarebbero molti buoni motivi per esserne spaventati. È piuttosto una percezione di insensatezza provocata da un gioco pericolosissimo che non si sa né quando avrà fine, né soprattutto perché lo si è iniziato.

Il clima ha toni di guerra. Ma per quanto riguarda noi europei è bene ricordare che nessuno ci ha mosso un attacco ai confini e nessuna invasione né per aria né per terra, nemmeno prevedibile, giustifica questo linguaggio che ci riporta indietro di un secolo.

Trump sta conducendo un’offensiva sui dazi che creerà ben presto problemi all’economia europea e sta mostrando di “avercelo duro”, con il linguaggio triviale e maschilista che lo connota, e insieme sta sgretolando welfare, cultura dei diritti e delle diversità di genere, tagliando fondi alle università.

Piani diversi

Dunque l’attacco è economico e insieme culturale: è sul quel piano che sta sferrando un colpo all’Europa: non lo si deve scordare perché altrimenti si confondono i piani e si trasferisce un linguaggio armato su un terreno in cui invece servirebbero cooperazione tra gli stati europei, politiche reali in favore delle imprese, dei salari e della qualità della vita delle persone e dei loro bisogni. Sembra invece che ci sia una grande confusione ma è proprio in questi momenti che serve lucidità di analisi e di prospettive.

Qual è la minaccia che incombe per cui è bene che ogni stato aumenti la dotazione dell’esercito (che dovrebbe semmai essere comune), che induca a pensare a scudi nucleari e a rinnovare armamenti, e che si arrivi a destinare alla spesa militare risorse molto ingenti sottraendole a sanità, scuola, progetti di contrasto al cambiamento climatico e quant’altro di vitale importanza?

Sappiamo dove si trova la guerra, chi ha aggredito e chi si sta difendendo e quante vite si sono spezzate in questi tre anni. Sappiamo che il nuovo presidente americano ha sospeso gli aiuti e sta, in accordo con Putin, arrivando a una pace che umilierà il paese offeso.

Ciò che sta avvenendo dovrebbe spingere a un aumento di negoziazioni e di diplomazia, a una presenza ferma e pressante e insieme a una maggiore unione tra stati europei non sul piano militare bensì che ponga al centro la crescita di una cultura reale di pace e di rispetto che contrasti nei fatti, negli intenti e nell’uso delle parole al bellicismo putiniano.

Invece nei toni pare quasi che Putin possa sferrare un attacco all’Europa e che ci si debba preparare a combattere. Stupisce che sia proprio una donna, la presidente della Commissione europea, a dare avvio a una militarizzazione dell’Europea e che affermi «che l’aggressione russa all’Ucraina rappresenta una minaccia “esistenziale” per l’Europa».

Se Putin ha mostrato di inseguire antichi sogni e desideri di ritorno alla Grande Russia ciò non implica che abbia pretese di espansionismo nel territorio europeo. Usare questo linguaggio è molto pericoloso, oltre che fuorviante, fa crescere un clima paranoico che solletica in alcuni uomini l’attrazione per l’uso della forza e rinfocola un virilismo che speravamo morto.

Linguaggi

Virilismo e bellicismo come sappiamo vanno a braccetto e l’ha ricordato Lea Melandri. Va posta la massima attenzione a certi scivolamenti lessicali: rispondere a Trump e a Putin sullo stesso piano e con lo stesso linguaggio è costruire un’escalation della tensione e non certo contribuire a spegnerla.

Un intellettuale stimato ha di recente scritto che ci siamo scordati del dovere di difendere i nostri valori, ricordando l’esperienza della Resistenza, che ci siamo cullati in un sogno di società libera da guerre, come se la pace fosse entrata nel nostro Dna (e io direi magari lo fosse), e che non siamo disposti a tornare indietro. «Il pacifismo – ha scritto - è stata una rivoluzione culturale, e va meditato, rispettato, ma non potrà mai diventare una piattaforma politica». Ma siamo proprio sicuri che invece non sia proprio una piattaforma politica e soprattutto culturale su cui costruire presente, futuro e creare solide alleanze, rilanciando il progetto di un disarmo universale.

La guerra è solo barbarie, lo sappiamo e ne vediamo le ferite dovunque e chi ne paga le spese sono i civili, e in particolare i bambini, le donne, gli anziani e la civiltà intera brutalizzata.

Sappiamo anche che si costruisce la guerra con le parole, con un clima che infonde paura e crea nemici, creando confusione, impedendo uno scambio pacato e analitico, e impedendo il dissenso.

Ridicolizzare il pacifismo, come se fossero sogni di bambini di fronte alla ‘realpolitik’, parola che va molto di moda, scordandosi da dove proviene questo termine, dimostra invece ottusità, un’incapacità di guardare a un futuro che è percorribile se ci si impegna seriamente ed è stato il percorso costruito nel dopoguerra con lucidità e fermezza e uno sguardo che guardava lontano.

Il pacifismo e il femminismo sono stati i movimenti che più hanno saputo allontanarsi dall’ideologia che sottende alla guerra con la volontà di costruire rapporti diversi tra i sessi, le persone, i popoli e le nazioni. Ripartiamo da lì e da una nuova consapevolezza.


Tiziana Plebani, storica e femminista, ha condiviso questa riflessione con Mara Bianca, Franca Marcomin e Stefania Minozzi.

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