Oltre il Mes e il patto di stabilità c’è un’Europa da rifondare. Un’Europa imperiale, infatti, semplicemente non può vivere
Alla domanda sulla data di nascita dell’Europa Marc Bloch rispondeva che l’Europa era nata quando l’Impero romano era crollato.
Tanto bastò perché davanti alle macerie del nazismo il suo amico ed erede, Lucien Febvre, quel concetto allargasse fino a sostenere che «l’Europa sorge sempre quando l’impero crolla».
Qualunque impero. Quello romano, su cui si era fondata la mitologia del fascismo. Quello tedesco che aveva appena trascinato il continente alla rovina. Quello di adesso, quando gli Stati Uniti perdono l’egemonia praticata negli ultimi settant’anni.
Il punto è che un’Europa imperiale – qualunque sia l’imperatore – semplicemente non può vivere.
Il pilastro
Forse basta questo a farci capire che la sfida di ora non è solo il patto di stabilità, tanto meno la ratifica del Mes. La sfida investe cosa dev’essere una sinistra che non può coltivare i suoi vecchi idoli con la lingua della retorica. Non possiamo farlo perché davanti a noi si è riaperto il conflitto tra le due anime dell’Europa politica moderna.
Quella dei nazionalismi col suo carico di odi, pregiudizi, muri. E quella dell’integrazione fondata sul pilastro cardine dopo le tragedie del Novecento.
Quel pilastro è stata la pace. Ora, il semplice fatto che la parola, e quel concetto, possano essere associati a un cedimento politico – o peggio, etico e morale – è più che un allarme. Perché senza quella matrice verso la quale non abbiamo meriti e che ci siamo limitati a ereditare nessuna rinascita è possibile.
Nessuna nuova Europa potrà vedere la luce, allargata o meno, a due o più velocità. In questo panorama spicca la voce del papa a condannare guerre devastanti nel cuore del continente o alle porte del Mediterraneo. In molti replicano che lui è il papa. Sottinteso, «fa un altro mestiere, ma la politica è realismo».
Con un’aggiunta pronunciata con maggiore o minore sincerità. Ed è che la difesa dei nostri valori non può cedere di un millimetro dinanzi alla prepotenza di un dittatore perché quel cedimento vorrebbe dire mettere a repentaglio i principi stessi della nostra civiltà. È un po’ il ragionamento che dice, «oggi l’Ucraina, domani la Senna».
Ma a quel punto la risposta quasi per inerzia diventa la guerra. Una guerra da vincere con il dovere di armarsi sempre di più in uno scontro vitale per entrambi. Per noi, a presidio dei nostri valori, e per vecchie e nuove autocrazie col loro traguardo: abbattere non un singolo confine, ma il nostro stile di vita e la nostra filosofia della storia.
Vuoto di coerenza
È un ragionamento perfetto nella sua fermezza, ma è anche un ragionamento che si frantuma contro il muro della coerenza. E se questo può apparire un dettaglio a noi, non lo è per qualche miliardo di persone sulla terra. È il vuoto di coerenza che consente all’occidente di scegliere di volta in volta i dittatori che perdoniamo in cambio della tutela dei nostri interessi.
Lo abbiamo fatto con Putin perché il suo gas ci serviva anche quando sterminava la gente a Grozny in Cecenia, quando bombardava Aleppo in Siria o faceva assassinare Anna Politkovskaja. Lo facciamo oggi – qualcuno senza batter ciglio – con le monarchie petrolifere del Golfo che calpestano i diritti umani delle donne o che squartano il corpo di un giornalista dentro una sede diplomatica.
La domanda
Ma qui c’è la domanda che non possiamo eludere. Ed è se un ordine del mondo può nascere unicamente dalle gerarchie del potere, degli interessi, della ricchezza. Perché è quello che sta succedendo senza che l’occidente mostri di avere sempre a cuore i principi di tolleranza e democrazia.
Al fondo il vecchio ordine del mondo era stato il frutto di due guerre mondiali e cento milioni di morti sul suolo europeo. Ma davvero qualcuno può immaginare che una nuova egemonia politica e strategica nel mondo possa transitare da una nuova corsa agli armamenti e dal potere finanziario di paesi senza democrazia?
Ha detto giorni fa il presidente Mattarella: «Il mondo in questi decenni è cambiato ma l’esito dei conflitti non gli recherebbe mai un ordine più rispettoso e più giusto». Penso che il destino dell’Europa viva qui e ha ragione Romano Prodi quando spiega che quel destino riguarda i prossimi secoli perché i tempi della storia non si improvvisano.
La verità è che nella parabola di questo continente tutto il male si è generato nei nazionalismi e nel loro sbocco che è stato sempre la guerra. Mentre il bene che l’Europa ha prodotto e rappresentato nel mondo ha avuto come perno la pacificazione della più vasta area geografica del pianeta. La pace, insomma.
E le politiche che l’hanno trasformata da utopia in un progetto storico. Da ideale in Costituzioni democratiche. Questo vale anche nell’oggi. Vale in Ucraina, dove la condanna della Russia non è in discussione e dove i morti sono oltre 400mila. Lì l’Europa non ha avuto una sola iniziativa diplomatica a causa delle sue divisioni.
Verità e passioni
Avviare l’ingresso dell’Ucraina in Europa è stata una decisione enorme. C’è chi ha scomodato l’aggettivo storico frutto anche del sostegno offerto dall’Europa e da noi. Sostegno economico, umanitario, militare. La domanda, però, che da mesi rimane senza risposta non è se dobbiamo pentirci o interrompere quegli aiuti. Personalmente non mi pento affatto del sostegno a un popolo che lotta per il suo destino e la sua libertà. La domanda è quando e come finirà quella carneficina.
Si può chiedere questo? Putin perderà? Io me lo auguro, ma possiamo riflettere su cosa vuol dire? Tornare a prima del 2014? Tornare a prima del 24 febbraio del 2022? Puntare a un regime change al Cremlino? E allora insisto: dove sta oggi l’utopia? In proclami di principio slegati dalla concretezza o in una politica che recuperi la sua capacità di iniziativa strategica?
Ma se di questo si tratta, di fronte a 400mila morti, a una guerra che si combatte nelle trincee come un secolo fa, che senso ha liquidare come novelli
Chamberlain – il premier inglese che nel 1938 firmò a Monaco la resa anticipata alla follia hitleriana – chiunque sollevi il tema del fermare le armi per il fine perseguibile di una tregua e una trattativa?
Una iniziativa diplomatica dell’Europa serve adesso e non tra sei mesi se non vogliamo che anche sul conflitto che si consuma per intero sul suolo dell’Europa alla fine decidano altri, compreso l’incubo di un ritorno di Trump alla Casa Bianca.
Questo sarebbe abdicare ai nostri valori? O a tradire quei valori oggi sono le azioni del governo Netanyahu che per reagire all’orrendo pogrom di Hamas uccide oltre diciottomila palestinesi e migliaia di bambini?
Col risultato di isolare sul piano internazionale quello stato – Israele – che ha diritto a difendersi e che noi abbiamo il dovere di proteggere anche criticando il suo governo perché Israele siamo noi, sono nostri fratelli e lo saranno sempre.
Ora, sull’Ucraina come su Gaza sono in campo proposte capaci almeno di sottrarci al più odioso tra gli esercizi che l’occidente ha coltivato nel suo passato: fare la guerra con i corpi degli altri. Non dico sia facile. Tutt’altro.
Ma se pensiamo che democrazia, laicità, il dialogo tra religioni, la convivenza tra popoli diversi, non debbano venire affondati per un tempo infinito, allora l’Europa va rifondata su questo terreno. Tutto il resto ne deriva.
Perché in una economia di guerra – in una storia che sdogana la guerra come arbitro dei conflitti – anche la giustizia sociale, i diritti nel lavoro, le libertà individuali e il ruolo degli stati, perdono la loro forza.
È sempre stato così e la destra vuole ancora quello. Da Milei a Trump, e Modi, Orbán o Erdogan. A unire queste figure è l’attacco alla democrazia. Sovvertire le istituzioni. Diroccare lo stato di diritto. Piegare l’informazione e la magistratura. Silenziare le minoranze. Si dice che il popolo li vota.
Ma tanto più la risposta è batterli sul terreno dei bisogni, dei principi, e di una lotta che sia allo stesso tempo di emancipazione, giustizia, cooperazione e disarmo.
C’è un mondo fuori, e un paio di generazioni, che forse non si stanno ancora ribellando, ma stanno ribollendo. Sono pronte a riempire le piazze e lo abbiamo appena visto. Alla sinistra chiedono un linguaggio di verità e di passioni. Negarglielo sarebbe un peccato imperdonabile.
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