La partecipazione al voto è sempre più bassa, in Italia e in molti paesi avanzati. Questa disaffezione nei confronti della politica ha diverse cause, ma tra esse una sembra risaltare specie nei paesi europei: la politica nazionale non è più in grado di dare risposte valide ai molti problemi che gli stessi politici sollevano e agitano.

Molti cittadini non si appassionano alle elezioni perché hanno la sensazione che, chiunque vinca, non cambi poi molto il corso delle cose e, purtroppo o per fortuna, non hanno troppo torto. Certo, per chi è appassionato di cose politiche, i singoli partiti e i singoli politici appaiono molto diversi tra di loro e di alcuni hanno piena fiducia, mentre di altri ne hanno un forte terrore, e questi sono quelli che ancora vanno a votare.

Ma se andiamo a vedere le grandi scelte, quelle che incidono veramente sulle sorti di un paese e sulla vita dei singoli cittadini, i margini di manovra della politica nazionale sono ormai molto stretti e non lasciano grandi spazi a innovazioni rilevanti.

Il caso italiano

Prendiamo il caso italiano, ove per la prima volta un partito di destra estrema è largamente maggioritario e guida il governo da ormai due anni. Chi – sulla base di quanto sostenuto da molti esponenti di questo partito a cominciare dalla sua capa prima delle elezioni – avesse immaginato un sovvertimento delle alleanze internazionali e una modifica sostanziale della politica economica costretta nelle rigide regole europee, non può che restare deluso.

Per fortuna, vorrei dire, perché il paese non ha bisogno di avventure e perché abbiamo sottoscritto trattati internazionali che non possiamo tradire, pena il rischio di isolamento e guasti economici. Basti vedere cosa è successo all’Inghilterra che è uscita dall’Unione europea e che ha tentato, con un governo durato pochi giorni, di fare una politica economica espansiva, abbassando le tasse oltre ogni misura: oggi l’Inghilterra soffre dell’isolamento in Europa ed ha dovuto rinunciare alla libertà della politica di bilancio per non subire pressioni finanziarie insopportabili.

In altre parole, ci siamo costruiti una serie di vincoli internazionali che ci garantiscono una relativa tranquillità, ma che ci inibiscono quella libertà di manovra che la politica rivendica specie nei partiti all’opposizione o nei nuovi partiti emergenti che indicano la soluzione proprio nel superamento di quei vincoli.

Un prezzo non troppo elevato

Così, per molte persone, le elezioni finiscono per non significare mai un reale cambiamento, ciò che può rassicurare a fronte di avventure, ma che riduce la tensione ad andare a votare, sia perché non si temono più realmente i cambiamenti radicali, sia perché non si spera più in un reale cambiamento. E, mentre a ogni elezione scende il numero dei votanti, emergono di volta in volta quei partiti e quei personaggi che promettono cambiamenti radicali che poi non saranno in grado né vorranno realizzare, generando altra disillusione e altre spinte a non votare alle prossime elezioni.

Questa spirale può arrestarsi momentaneamente quando si avverte un reale pericolo di cambiamento, come è stato recentemente in Francia a fronte del rischio di vittoria della destra estrema, o quando si consolida una voglia di cambiamento a fronte di una forte delusione, come è stato negli Usa nel 2020, dopo il trauma del primo governo Trump, con la vittoria di Joe Biden che ha visto un record di votanti.

Ma il fenomeno è temporaneo perché presto la disillusione riprende il sopravvento, come si è visto anche nei due casi sopracitati. In definitiva, la scarsa partecipazione al voto è il prezzo che paghiamo alla ricerca di stabilità delle nostre istituzioni e, in questo senso, è un prezzo non troppo elevato e che dobbiamo sopportare, perché evita ai nostri paesi il rischio che ogni elezione possa trasformarsi in una rivoluzione dove i nostri diritti personali e le nostre collocazioni internazionali siano rimessi in gioco da parte di politici avventurieri o sulla base di umori della folla impressionata da fatti particolari, veri o falsificati.

Combattere la disaffezione

Ma bisogna anche evitare che questo prezzo si trasformi in immobilismo e frustrazione di ogni speranza di cambiamento, che potrebbe portare a reazioni inconsulte e, queste sì veramente sovversive. Che fare di fronte a questa impasse?

Da un lato occorre saper spiegare che, pure all’interno dei vincoli scelti, c’è largo spazio per una migliore amministrazione e, quindi, vale la pena di votare per scegliere i partiti e i politici più competenti. D’altro lato, occorre riportare a livello dei cittadini elettori la gestione di questi vincoli per adattarli continuamente alle esigenze del momento. E ciò può essere fatto se i cittadini acquistano responsabilità di gestione attraverso i propri rappresentanti negli organismi internazionali di cui fanno parte.

Qui sta il difficile, ma è su questa base che si può riportare la gente a interessarsi della politica, facendola sentire partecipe e attrice dei necessari cambiamenti. Per questo (anche per questo) diventa urgente che l’Europa assuma una connotazione di unione politica, dove gli elettori si sentano in grado di partecipare con il loro voto alla costruzione di una politica libera da condizionamenti che, se lasciata alla dialettica tra governi nazionali paralizzati dalla esigenza di unanimità, appare destinata all’immobilismo e generatrice di frustrazioni.

Dare al parlamento europeo un ruolo di guida politica dell’Unione e ridurre il peso dei governi nazionali rappresenta la via per riavvicinare la gente alle istituzioni che contano e per riportarla a un voto che possa effettivamente incidere sulle scelte della propria vita. In altre parole, si tratta di andare verso quell’unione politica sempre più stretta scritta nei trattati europei, a cominciare con quei paesi che sono disponibili a mettere in comune parte della loro sovranità per costruire veramente l’Unione europea. 

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