Non è proprio tempo di doppio standard. Romano Prodi lo sa molto bene. In tempi in cui la violenza nei confronti dei giornalisti non è un fatto isolato ma è una regola del sistema, chiedere a un leader morale del centro sinistra di non riprodurre comportamenti abitualmente adottati dai politici della destra mi pare sinceramente il minimo. Ma la scena che l’ha coinvolto mi serve come semplice pretesto per trarne una lezione assai utile per la sinistra.

Infatti, come ha già notato magistralmente Nadia Urbinati su queste pagine, le parole del Manifesto di Ventotene usate per provocare Prodi non sono né sovversive né pericolose. Dopo un iniziale radicalismo (la proprietà privata va abolita), correggono il tiro per suggerire che essa si deve esercitare nei limiti dell’interesse generale e assicurandone la funzione sociale. Niente di diverso da quello che poi diventerà l’articolo 42 della Costituzione. Allora perché quella reazione così scomposta e la fretta di dissociarsi da idee che non contengono nulla di cui vergognarsi?

La mia tesi è che dietro la questione della proprietà privata si è giocata negli ultimi decenni la svolta neoliberale del centro sinistra europeo ed è ancora su questo che si gioca il suo futuro.

Realismo capitalista

Andiamo con ordine. Agitare la minaccia di toccare la proprietà privata è uno dei grandi dogmi del cosiddetto realismo capitalista. Parole difficili per esprimere un’evidenza semplice: oggi possiamo credere persino alla fine del mondo, ma non possiamo credere alla fine del capitalismo. In modo particolare non possiamo in alcun modo delegittimare i suoi fondamenti ideologici, a partire precisamente dalla proprietà privata. Un vero tabù politico, come ben sappiamo quando per esempio (non) si parla di patrimoniale.

Ora, il realismo capitalista non è un modo di pensare diffuso solo a destra, ma anzi è ciò a cui il socialismo europeo (e non solo) si è velocemente convertito nella lunga fase del tardo Novecento. Lo ricordiamo tutti: il compito dei “progressisti” non consisteva nel limitare la proprietà privata in funzione dell’interesse generale, ma piuttosto nel governare la sua estensione tramite un doppio movimento. Più si minimizzava il ruolo dello stato più si estendeva la logica stessa del privato all’intera organizzazione della società.

La privatizzazione delle grandi partecipazioni statali avrebbe dovuto servire a questo. Privatizzare voleva dire sgonfiare il “baraccone” pubblico e affidarsi alla purezza morale degli interessi individuali: tutti noi teniamo alle nostre cose e, così ci fanno credere, teniamo di meno alle cose che sono di tutti.

La logica del privato avrebbe garantito contemporaneamente maggiore efficienza e maggiore mobilitazione sociale (perché la concorrenza avrebbe dato opportunità di arricchimento a tutti: l’unico progresso a cui abbiamo continuato a credere). In fondo l’immediata presa di distanza di Prodi da un principio che non è affatto sovversivo è in piena sintonia con la storia di un’epoca in cui il centro sinistra e il socialismo europeo hanno introiettato la missione politica di sostituire il pubblico con il privato, nella convinzione che questo avrebbe creato maggiore competizione e mobilità sociale.

Prendere le distanze

Il punto non è però soltanto se su questa convinzione ideologica sia ancora possibile costruire un socialismo credibile, ma anche se l’alternativa che ci rimane non debba prendere di petto esattamente la questione della proprietà privata.

A pensarci bene, ciò che tutti noi stiamo cercando di fare è di opporci a una fase storica connotata da una vera e propria privatizzazione del mondo. Tutte le nostre principali battaglie politiche sono forme di resistenza all’indebita estensione della logica della proprietà privata in spazi di interesse pubblico. Ci mobilitiamo per la sanità pubblica contro la sua sostituzione con la sanità privata, lo stesso facciamo con la scuola e l’università, difendendole dalla minaccia sempre più concreta di una loro definitiva privatizzazione.

Potrei fare mille altri esempi. Il punto è allora che se c’è qualcosa che può caratterizzare in positivo le lotte del centro sinistra è precisamente la radicale discontinuità con quella fase culturale: l’idea cioè che la proprietà privata – come tale – non va demonizzata ma non va neanche dogmatizzata. E soprattutto che non porta ad alcuna equità sociale e non può sostituire la forma pubblica di regolazione di alcune sfere essenziali della società.

Se la sinistra ha ancora senso, è a partire dall’esplicita presa di distanza da quel passato recente a cui anche Prodi fa riferimento. Tornare al Manifesto di Ventotene e alla Costituzione: garantire la proprietà privata nei limiti degli interessi sociali, opporsi alla privatizzazione del mondo con una gigantesca campagna culturale e politica a favore dell’irriducibile necessità della gestione pubblica di alcune sfere della società.

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