- La mancata unità del centrosinistra offre un grande vantaggio competitivo al centrodestra, al cui interno pare irresistibile l’ascesa del partito di Giorgia Meloni. Persino nel Veneto autonomista, la Lega teme il sorpasso dell’alleato
- In Veneto, le liste della Lega riflettono l’orientamento imposto dalla leadership di Salvini. Zaia si è affrettato a ribadire che lui non si occupa delle liste elettorali e ha rimarcato la propria ispirazione liberale e aperta sui diritti civili
- Le posizioni di Zaia in parte riflettono le trasformazioni del Veneto in questi decenni, in cui i processi di secolarizzazione hanno cambiato nel profondo la fisionomia della società e i suoi valori
La sconfitta del centrosinistra è una scelta, non una fatalità, ha spiegato su Domani del 21 agosto Curzio Maltese. Grazie ad una coltivata tendenza suicidaria che lo ha indotto a scriteriate frantumazioni, il centrosinistra rischia di garantire una robusta maggioranza parlamentare alla destra. Questo schieramento si presenta elettoralmente compatto, anche se non mancano al suo interno significative differenze di cultura politica. Ora l’egemonia pare transitare verso Fratelli d’Italia e la sua offerta politica neo-conservatrice.
Persino nel Veneto autonomista la Lega teme il sorpasso dell’alleato. I candidati della Lega in Veneto sono quasi tutti esponenti vicini a Matteo Salvini e il popolarissimo presidente della regione, Luca Zaia, si è affrettato a rimarcare che lui non si occupa della composizione delle liste per le elezioni politiche. L’uomo del 76 per cento di consensi (alle ultime regionali) continua ad essere focalizzato sulla politica locale, “distante da Roma”.
Già presidente della provincia di Treviso, Zaia ha tesaurizzato l’eredità della corrente fanfaniana della Dc, concentrata nella roccaforte trevigiana, più laica e focalizzata sui governi comunali. In una intervista sulla Stampa del 12 agosto ha affermato «ora basta tabù su diritti e sessualità», anche in questo rispecchiandosi nei tratti di una società quale quella veneta ormai secolarizzata, in cui, ad un’egemonia culturale della destra, incardinata sulla richiesta di maggiore autonomia dallo stato, si accompagna una ricerca di autonomia anche sul piano personale, soprattutto nelle scelte etiche.
Tendenze di lungo periodo
È qualcosa che viene da lontano. Che i processi di modernizzazione e secolarizzazione caratterizzanti l’intero paese stessero modificando la tradizionale filigrana della società veneta appare evidente nel 1974, quando si tiene il primo referendum abrogativo della storia della Repubblica, in seguito alla richiesta avanzata da cattolici e missini di abolire la legge Fortuna-Baslini che ha introdotto nell’ordinamento italiano il divorzio.
In quella occasione, la destra e una parte del mondo ecclesiastico auspicano l’abrogazione della legge nella speranza che, come nella Francia di De Gaulle, l’appello plebiscitario possa spazzare via la mediazione dei partiti e del Parlamento. Tuttavia, le cose vanno molto diversamente. Nonostante l’imponente sforzo organizzativo delle gerarchie ecclesiastiche, il pronunciamento degli elettori conferma in modo netto la legge Fortuna-Baslini con il 59,3 per cento dei voti.
L’ampia mobilitazione della società italiana si riflette nell’elevata percentuale dei votanti, l’87,7 per cento, un valore che non sarà più raggiunto nei successivi appuntamenti referendari. Il Veneto (con il 51,1 per cento di sì contro il 48,9 di no) è l’unica regione del Centro-Nord, assieme al Trentino-Alto Adige (50,6 per cento di sì contro il 49,4 di no) a privilegiare, seppur di poco, l’opzione abrogativa (l’affluenza al voto del Veneto è molto alta, 93,6 per cento, superiore alla media nazionale). Il Veneto “bianco”, la regione definita “la sagrestia d’Italia”, che alle elezioni del maggio 1972 aveva garantito alla Dc la maggioranza assoluta, risulta diviso perfettamente a metà sulla questione del divorzio.
Non solo le prescrizioni di comportamento di carattere religioso diventano meno vincolanti nella condotta di vita delle persone, ma emerge come molti cittadini ritengano che le questioni etiche debbano essere considerate autonomamente rispetto alle posizioni assunte dal proprio partito di riferimento. Tali processi avvengono in modo differenziato nei diversi contesti territoriali, facendo riemergere la frattura fra aree urbane e rurali. Infatti, se in Veneto il sì all’abrogazione del divorzio di poco s’impone, il no prevale in tutti i capoluoghi di provincia.
Etica del lavoro
Il processo di secolarizzazione si è rafforzato nel corso dei decenni, sino ai tempi più recenti. Possiamo considerare i dati del secondo rapporto sugli Orientamenti civici del nord est (con rilevazioni estese al Friuli-Venezia Giulia e alla provincia di Trento), particolarmente significativi poiché raccolti nel 2007, dopo tre decenni di grandi trasformazioni indotte dai processi di sviluppo di piccola e media impresa, ben raccontati, fra gli altri, da Giorgio Lago e Ilvo Diamanti, e alla vigilia della grande crisi economica che di lì a poco si sarebbe abbattuta anche sul nostro paese.
Quei dati evidenziano che la fiducia nella chiesa risulta inferiore soltanto a quella riposta nelle forze dell’ordine: il 59,3 per cento dei veneti sostiene di nutrire fiducia nella chiesa (la media del nord est è del 57,7, mentre il dato nazionale è del 58,7). Tuttavia, tale fiducia non produce un elemento identificante per la società locale paragonabile a quanto accadeva in passato. Infatti, il riferimento alla religiosità risulta l’ultimo degli elementi considerati dal campione per esprimere i tratti tipici dei corregionali. Più in dettaglio, il 48,7 per cento dei veneti intervistati definisce le persone che lo circondano come “lavoratori” (la media del nord est è del 50,1, il dato nazionale è del 33,2), mentre solo il 3,7 per cento dei veneti mette in rilievo la religiosità degli altri cittadini della regione (la media del nord est è del 3,3, quella nazionale dell’8,4).
Alla comune appartenenza religiosa, quale garante del legame sociale, subentra una etica “lavorista” anch’essa con radici di lungo periodo nella cultura politica locale.
Gli effetti delle crisi
È un punto decisivo. L’epopea del nord est ha reso l’imprenditore un punto di riferimento sociale, non solo economico, al centro di un modo di regolazione nel quale le istituzioni politiche restano sullo sfondo. I protagonisti si trovano nei distretti industriali, in cui le distanze fra (piccoli) imprenditori e lavoratori sono ridotte e l’organizzazione è flessibile, al fine di recepire le continue sollecitazioni provenienti dai mercati internazionali.
È su questo mondo – e su questa concezione del mondo – che precipita la crisi economica, che presto si trasforma in dramma sociale, come testimonia la terribile sequenza di suicidi fra gli imprenditori della zona. Ma è un’altra crisi, quella sanitaria legata al Covid-19, che riscrive i rapporti di fiducia della società verso le istituzioni: secondo i dati dell’Osservatorio nord est, curato da Demos per il Gazzettino, vent’anni fa era il comune l’istituzione che maggiormente godeva della fiducia dei cittadini (43 per cento), davanti alla regione (35 per cento) e allo stato (34 per cento), con valori quasi equivalenti. Con alcune tendenze marcate (il declino della fiducia verso lo stato) il grado di fiducia istituzionale dei cittadini dell’Italia nordorientale resta simile fino al 2018. Per poi cambiare repentinamente.
L’epidemia di Covid-19 rafforza la fiducia nei confronti di tutti i livelli istituzionali, secondo la ben nota tendenza denominata “raccogliersi attorno alla bandiera”, ma incide con più evidenza a favore delle regioni. Nel 2020 la fiducia nella regione fra i cittadini del nordest sale al 75 per cento, quella per il comune al 63 per cento, mentre quella dello stato arriva al 28 per cento (rispetto al 19 del 2018). Incide in questo processo il ruolo svolto dalle regioni nell’attuazione delle politiche sanitarie, ma produce effetti anche il ruolo mediatico ricoperto dai presidenti di regione, come è stato più volte messo in luce riguardo alla strategia di comunicazione attuata da Luca Zaia durante la pandemia.
Anche il mondo cattolico ha dato il suo contributo nel fronteggiare gli effetti della pandemia, ma questo non ha inciso rispetto agli effetti del processo di secolarizzazione. Sempre secondo i dati dell’Osservatorio nordest, curato da Demos per il Gazzettino, nell’aprile del 2022 il 16 per cento del campione ritiene l’insegnamento della chiesa rispetto alla morale e alla vita delle persone molto importante (nel 2002 era il 17 per cento), mentre il 47 per cento lo ritiene utile, anche se poi ciascuno si deve regolare secondo coscienza.
Questo dato è interessante perché nel 2002 coloro che consideravano l’insegnamento della chiesa utile, ma da seguire secondo coscienza, erano il 63 per cento. Il calo è di 16 punti percentuali. Infatti, in questi vent’anni sono aumentati gli indifferenti, dal 4 al 14 per cento. Così come chi ritiene l’insegnamento della chiesa improprio, dal 14 per cento al 17 e negativo, dal 2 per cento al 6. Nella complicata ricerca di nuovi ancoraggi, per molti cittadini dell’Italia nordorientale l’identificazione locale e la tutela dell’autonomia personale si affermano quali riferimenti marcati.
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