La Buchmesse, fulcro degli affari editoriali, quest’anno doveva essere un’opportunità per l’Italia. Tra il trattamento riservato a Saviano e l’eloquio di Giuli vorrei quasi cambiare cittadinanza
La Buchmesse, la fiera del libro che ogni anno si tiene a Francoforte, è un po’ la fashion week dell’editoria. Non tanto per come ci vestiamo (male, come abbiamo appurato in altre occasioni mondane già ampiamente sviscerate su queste pagine), ma perché in questa settimana concitatissima (insieme alle altre fiere per addetti ai lavori che si svolgono a qualche mese di distanza a Londra, a New York e ormai in tutto il mondo) si fanno gli affari più importanti della stagione (o almeno si facevano un tempo).
Ci sono gli stand degli editori, certo, ma soprattutto c’è il centro degli agenti, una specie di hangar in cui non batte la luce del sole lastricato di tavolini dove agenti letterari, scout, editor si dedicano alla compravendita dei diritti dei libri.
Io, che oltre a fare la pagliaccia una volta a settimana su questo giornale per lavoro mi occupo proprio di questo (cioè di vendere all’estero i diritti di traduzione degli autori italiani rappresentati dall’agenzia letteraria per cui lavoro), partecipo alla Buchmesse da diversi anni sempre con una certa dose di entusiasmo, ma in questa edizione c’era un po’ di entusiasmo più del solito. L’Italia era il paese ospite d’onore, un’occasione che non si presentava dal 1988 e una buona opportunità per promuovere la cultura italiana, ma che a ben vedere è stata sfruttata così così.
Polemiche e ministri
Le polemiche, qualcuno se ne sarà accorto, erano iniziate ben prima della Fiera, all’annuncio della delegazione degli scrittori e delle scrittrici che sarebbero stati invitati: non sto a riassumere tutto, ma insomma, mancava Saviano, uno dei tre nomi di italiani viventi che dicono qualcosa anche all’estero (gli altri sono Laura Pausini e Andrea Bocelli, anche loro assenti alla Buchmesse, se vogliamo proprio spaccare il capello).
Viene firmata una lettera di scrittori che denunciano una gestione insufficiente di questa partecipazione italiana alla fiera: censura, libertà d’espressione, mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente? A che ora è la rivoluzione? E come si deve venire? Già mangiati?
Mesi dopo la Fiera inizia, martedì sera viene inaugurata in maniera istituzionale alla presenza del nuovo ministro della cultura Alessandro Giuli e il suo è chiaramente l’unico intervento che tutti vogliamo sentire nelle due ore soporifere della serata inaugurale.
È dal suo insediamento che bramiamo nuove supercazzole, e Giuli ci dà quello per cui siamo venuti: sale sul palco accolto dalle urla di un tedesco indignato, butta lì una “paideia” per ricordarci che ha fatto il classico e poi pronuncia la frase che tutti ci affrettiamo a segnarci nelle note dell’iPhone, come quelle idee geniali che ci vengono di notte e solo la mattina seguente realizziamo che erano una minchiata.
A lui invece, suppongo diversi giorni dopo aver scritto questo discorso con qualcuno, sembra ancora una buona idea dire questa cosa: «Siamo qui per riaffermare la centralità del pensiero solare, il punto d'incontro tra la rigidità delle ideologie, della battaglia delle idee, che si discioglie nella luce meridiana dello spirito mediterraneo».
Cosa avrà voluto dire? Che pur avendo militato in movimenti di estrema destra, il fascismo gli è passato dopo aver mangiato due spaghi alle vongole vista mare? Che alla fine volemose bene in nome della pizza con il cornicione di ricotta? O sono parole a caso che ha pescato da un’urna rotante piena di bussolotti del Devoto-Oli? Mentre elenca tutti gli esempi virtuosi di collaborazione tra Italia e Germania mi chiedo quanta fatica gli costi non citare l’asse Roma-Berlino, ma il tutto si esaurisce senza incidenti diplomatici, metà degli italiani nel pubblico escono dalla sala appena Giuli lascia il podio, e con il tradizionale battito del martello la Buchmesse è ufficialmente aperta.
Bolle e bratwurst
Saviano e diversi firmatari alla fine vengono invitati dai tedeschi e inseriti in una specie di contro-programma all’interno del palinsesto. C’è maretta in giro, mi dicono, gli ammutinati rischiano di togliere attenzione al programma principale (che comunque è composto perlopiù di persone per bene, non è che hanno promosso delle letture collettive del generale Vannacci) e al discorso sui libri, ma io non so niente, non capisco niente, perché come al solito passo tutto il giorno nell’hangar senza finestre a parlare con degli stranieri che di quello che succede là fuori ne sanno meno di me, e alla fine vale sempre quella citazione di Leo Longanesi, che diceva che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti.
Intanto, mentre nella nostra bolla ben arredata di quisquilie cerchiamo di decidere se il bratwurst è comunista come la mortadella o fascista come il prosciutto cotto (e l’unica cosa che interessa davvero a tutti è scoprire se Filippo Bernardini, famigerato ladro di pdf di cui spero HBO compri i life rights, è davvero tornato a seminare il panico tra gli editoriali corrompendo i nostri indirizzi mail), dall’Italia ci arrivano notizie di migranti deportati in Albania e di dichiarazioni di nuovi reati universali giuridicamente instabili, approvati in nome di valori vomitevoli, e a me vien voglia di chiedere la cittadinanza nelle Filippine per vedere se l’anno prossimo posso venire alla Buchmesse senza provare vergogna per il mio paese.
Lascio la Germania inseguita dallo sciame di vespe che perseguita gli ignavi, incapace di decidere chi abbia ragione, da che parte devo stare, che posizione devo prendere. Non ho nemmeno capito se il bratwurst sia di destra o di sinistra, nonostante sia stato alla base della mia alimentazione per tutta la settimana. So solo che mi perdo il concerto di chiusura del Volo e almeno di questo sono grata.
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