L’autore di Newark usa poco la prima persona nei suoi libri. Ma sembra sempre che stia parlando di sé. Una performance teatrale racconta questo intreccio straordinario tra verità e menzogna, vita e letteratura
La letteratura, si sa, è uno specchio. A volte amplifica, a volte distorce, a volte ci mostra senza filtro il nostro riflesso. La letteratura è anche il racconto che si fa dello specchio, che non a caso è una delle soglie più affascinanti, di cui hanno scritto, per esempio, Lewis Carroll e Jorge Luis Borges.
Leggere Philip Roth, uno dei grandi maestri del secondo Novecento americano, in molti casi somiglia guardare questo specchio, nel quale però scorre la vita e la voce dello scrittore e non la nostra immagine.
O, meglio, alla fine ovviamente per ciascun lettore finisce con il comporsi anche la propria immagine, ma questo accade dopo, prima c’è la roboante narrazione di Roth, ci sono le incredibili avventure dei suoi personaggi, quasi sempre sfrenati, ma con grandi isole di malinconia.
Anche se la prima persona ricorre poco nella bibliografia dello scrittore dei Newark, la sensazione che si ha leggendolo è che tutti i suoi libri siano, in realtà, racconti in prima persona; anzi, viene naturale pensare che le vicende raccontate siano successe a Roth e che sia lui, l’autore, e non un qualsiasi personaggio, a dire “io” sotto le mentite spoglie dei vari Alexander Portnoy, Peter Tarnopol, David Kepesh e soprattutto Nathan Zuckerman, protagonisti di diversi suoi romanzi.
Alter ego
Zuckerman – il più celebre alter ego di Roth, la personificazione di tutto quello che il “personaggio Roth” nella vita reale abbiamo pensato avesse commesso – è un carattere complesso. Fallisce di continuo, non arriva a nessun capo dei molti fili che ha gettato, si perde nei meandri di troppe vicende.
Ma la sua evidenza è indiscutibile, il suo farsi carico delle storie, spesso con una reazione di irriverenza che è salvifica (per lui e per il lettore), ha una densità che affonda nella grande letteratura.
La sua impostura è grandiosa e onesta, come poche altre. Zuckerman alla fine è quello che si innamora più volte di Amy Bellette che, ci crediate o no, è possibile che sia Anne Frank sopravvissuta all’Olocausto.
Basterebbe questo per far crollare tutto il castello del “realismo” di Philip Roth, ma noi sappiamo, nel solco della grande lezione ebraica (serve citare Kafka e Bruno Schulz?) che, come ha scritto Walter Siti, «il realismo è l’impossibile». E dunque rieccoci qui, da capo, persi in un meraviglioso circuito vizioso che alimenta di continuo le proprie contraddizioni.
Fino ad arrivare, all’inizio della grande stagione della maturità di Roth, alla vertigine di un romanzo come Operazione Shylock (1993) nel quale uno scrittore di nome Philip Roth, che parla in prima persona, scopre che un altro Philip Roth si spaccia per lui a Gerusalemme e diffonde idee sul diasporismo ebraico, ossia una teoria opposta al sionismo che invita gli ebrei a lasciare Israele e tornare nei paesi da cui sono venuti.
Ma una volta arrivato in Medio Oriente per smascherare l’impostore, il “vero” Philip Roth assume i panni e le idee del suo “falso” doppio, in un crescendo di riflessi che fanno il romanzo e la sua sorprendente forza di complessità. La stessa complessità strutturale che alimenta quello che, anche secondo scrittori come Jonathan Franzen, Martin Amis o J.M. Coetzee, è probabilmente il grande capolavoro di Roth: Il teatro di Sabbath (1995), maestosa e shakespeariana sfida alla morte di un burattinaio-satiro 64enne.
Osceno e infantile, sfrontato e disperato, ostinatamente vivo, Mickey Sabbath è il nostro Falstaff – lo dice il critico Harold Bloom – e rappresenta in un certo senso l’alternativa selvaggia a Zuckerman. Tutto ciò che a Nathan è stato perdonato a Sabbath no, ma in fondo non cambia nulla: gli estremi si toccano, quello che conta è la grandezza smisurata della creazione letteraria. Il resto, credete al principe Amleto, è silenzio.
Verità e menzogna
Per raccontare tutto questo intreccio tra vita e scrittura, tra biografia e bibliografia, tra verità irraggiungibile e menzogna letteraria possibile (che altro non è che la «verità romanzesca» teorizzata in un celebre saggio dal filosofo René Girard, che la contrapponeva alla «menzogna romantica»), per provare a dare una minima idea di tutto ciò ho scritto uno spettacolo su Philip Roth, una sorta di performance per un solo interprete, che ruota intorno ad alcuni luoghi della sua letteratura, che parte dal momento in cui il mondo fa irruzione nelle sue storie e le devasta – come in Pastorale Americana, per esempio – per arrivare alla fine dello stesso mondo, alla morte, al fantasma che esce di scena, in quello che è il suo ultimo grande romanzo, Exit Ghost, per l’appunto, datato 2007: il congedo magnifico e senza pentimenti di Zuckerman.
In mezzo c’è la storia dello scandalo che ha accompagnato tutta la carriera dello scrittore, dal primo bellissimo racconto Goodbye, Columbus, dove si parlava dell’ipotesi o meno di usare una spirale, passando per il Lamento di Portnoy, che ancora adesso qualcuno vorrebbe bruciare per oscenità (ma è in realtà un libro straordinario sul bisogno di tenerezza e sull’insondabilità degli affetti familiari) e arrivare agli anziani che si comportano male, come Sabbath o David Kepesh, il Professore di desiderio.
Scandalo che ha probabilmente alimentato anche la carriera di Roth e che lui – lui che ha pure avuto un flirt con Jackie Kennedy – deve avere cavalcato in certi anni. Ma che, in fondo, non esisteva, non è mai esistito, se non nell’occhio – spesso morboso – di chi guardava. Perché Roth non è mai stato Zuckerman, ma questa, lo so, può sembrare solo la mia teoria.
Fare finta
Il punto, però, per tornare all’inizio, è la “prima persona”: anche qui in Roth tutto è possibile e ciò che conta sono solo i libri, il modo in cui ci arrivano, la loro insondabile potenza, per noi, ma anche a prescindere da noi. Ma ci sono dei fatti, o, per lo meno, delle testimonianze, come l’intervista dello stesso Philip alla Paris Review del 1984.
«Bisogna essere spaventosamente ingenui», dice Roth all’intervistatore, «per non capire che uno scrittore è un attore che recita la parte che sa fare meglio, anche quando indossa la maschera della prima persona singolare, che per un alter ego può essere la migliore maschera possibile».
E se non fosse abbastanza chiaro, poco prima, per definire il suo essere scrittore Roth usa un verbo inequivocabile: to pretend, fare finta.
Forse è banale, forse sono cose che tutti in qualche modo sappiamo benissimo, è possibile. Ma è anche possibile che il momento in cui ci accorgiamo che tutta quella congerie di storie, sesso, disperazione, desideri, sogni, follie, malinconia, morte e vita che abbiamo letto e amato e sentito straordinariamente vicina è in realtà finzione (ricordatevi ancora una volta di Borges), è possibile che proprio quel momento rappresenti il nostro massimo avvicinamento al cuore vivo e universale della letteratura. Che è un posto, personalmente, dove penso sia interessante provare a stare, anche solo per il tempo di uno spettacolo.
Incontri immaginari
Perché la storia della mia relazione con Roth è anche una storia di luoghi immaginari e mancati incontri, come quando a New York nel 2013 ho cercato di andate sulle rive dell’Hudson per gettare uno sguardo verso Newark, per vedere la sua città, anche se da molto lontano. Improvvisamente però si è alzato un vento fortissimo che mi ha letteralmente respinto via. Non ce l’ho fatta, non ho visto Newark, ma ancora una volta Philip mi ha regalato una storia, invece di un banale e un po’ ridicolo fatto. Vince sempre lui, alla fine.
Operazione Roth – che è anche una forma di autobiografia mia, ovviamente, e nel quale ci sono io che incontro lo scrittore a Venezia, insieme a Shylock e c’è Il mondo di Jimmy Fontana e anche una lunga lettera allo scrittore, mai spedita naturalmente – ha debuttato al festival di Internazionale a Ferrara e il 2 dicembre, va in scena a Genova, nell’ambito del festival DiPassaggio, che ha la direzione artistica di Benedetta Centovalli e dal 30 novembre al 3 dicembre 2023 affronterà il tema della letteratura e dell’autobiografismo.
Dal 30 novembre al 3 dicembre nell’ambito di Genova Capitale del libro 2023 ci sarà la prima edizione del festival diPassaggio, diretto da Benedetta Centovalli, e sarà presente anche il giornalista e performer Leonardo Merlini, esperto di letteratura americana che sabato 2 dicembre alle 18 presso il Teatro delle Tosse terrà uno spettacolo dedicato ai libri di Philip Roth, lo scrittore che più di tutti ha saputo ridefinire il racconto realista e dare un senso profondo e autobiografico alla parola “fiction”.
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