The Room Next Door, girato in inglese, è un fiume di parole e una raffica di pugnalate al cuore. La candidatura di Tilda Swinton e Julianne Moore a ogni premio possibile è del tutto scontata
Ha senso la critica cinematografica se la percezione di un film è sempre categoricamente, irrimediabilmente soggettiva? A proposito di The Room Next Door, il primo lungometraggio di Pedro Almodóvar girato in lingua inglese, colleghi amati e stimati mi parlano di «soap insopportabile» e di «défilé di alta moda griffata» (quest’ultima cosa un po’ è vera).
Per me il film, in concorso a Venezia e in uscita con Warner il 5 dicembre, è stata una raffica di pugnalate al cuore. Vale per chi parecchie delle esperienze che popolano questo requiem di morte e amicizia le ha vissute in prima persona. Cose indicibili esplorate con brutale franchezza: correrò a leggere il romanzo di Sigrid Nunez ispiratore, Attraverso la vita.
È un film di parole, un fiume di parole. Quelle che ricuciono l’amicizia profonda tra Martha (Tilda Swinton) e Ingrid (Julianne Moore), interrotta dal lungo soggiorno europeo di quest’ultima. Moore è una scrittrice, Swinton è stata una grande corrispondente di guerra del New York Times. E ha un cancro terminale alla cervice. Occorre dire che la candidatura di entrambe a tutti i premi censiti, dalla Coppa Volpi agli Oscar, è cosa scontata?
Quello scritto e diretto dal regista manchego è un film letterario fino al midollo. Non casualmente il filo rosso, che torna a ripetizione, è il finale di Gente di Dublino, quello che chiude l’ultimo racconto, The Dead: «E l’anima lenta gli svanì nel sonno mentre udiva la neve cadere lieve su tutto l’universo, lieve come la discesa della loro ultima fine su tutti i vivi, su tutti i morti». Martha lo conosce a memoria e lo riascolta nel film-testamento di John Huston, The Dead-Gente di Dublino (1987). Perché ha scelto di non lasciare la propria morte al lavorìo spietato del tumore. Ma non vuole morire in solitudine, e all’amicizia di Ingrid chiede questa prova estrema di solidarietà.
La chiave del film
L’eutanasia, il diritto di scegliere con dignità il fine vita, è il tema chiave. Non il solo, però. Swinton ha una figlia, Michelle (è l’attrice stessa a interpretarla, quando compare in finale) che la odia «fin da bambina». E dice cose che nessuna madre ha il coraggio di dire, anche quando arriva a pensarle: «Non la sento figlia mia. Spesso penso che me l’abbiano scambiata alla nascita».
È stata un incidente di adolescenza, con un coetaneo tornato devastato dalla guerra che poi è andato a vivere e a morire altrove. Per la figlia è colpevole di non averle dato un padre, e una vita spesa «tra guerre e adrenalina», da madre assente, ha peggiorato le cose.
Ci sono una lucidità e una ferocia in queste confessioni che le distanziano dalle molte variazioni di Almodóvar sul tema della maternità. In margine, attraverso una memoria di reportage sull’Iraq, si riflette anche sul sesso come scudo contro gli orrori della guerra: un missionario carmelitano attinge il suo coraggio dal piacere carnale con gli uomini che incontra. Ed è spietato il giudizio sul modo in cui ci insegnano a vedere il cancro, «come se fosse una guerra tra paziente e malattia, se combatti sei un eroe». Le terapie psicologiche di gruppo fanno di peggio: «te lo propongono come un dono, un’opportunità». On connait la chanson, come dicono i francesi: sentire queste verità declinate senza retorica mi ha dato i brividi.
Il canto degli uccelli
L’eutanasia è illegale, come si sa, e la pillola magica che Martha si è procurata sul dark web non dovrà mettere nei guai l’amica chiamata a farle compagnia, come da titolo, "nella stanza accanto”. Fingeranno di partire per una vacanza in una splendida villa affittata nei pressi di Woodstock: «È un po’ cara ma l’occasione lo merita!». Ingrid dovrà allenarsi a mentire, e comunque a Martha sta già nascondendo che un suo ex amante molto rimpianto dei loro ruggenti anni Ottanta (John Turturro) è il suo attuale compagno. Condividere gli ultimi giorni di un suicida è un fardello pesante, e anche questa è una prova che chiunque l’abbia vissuta anche da remoto, attraverso persone amiche, conosce come sofferenza tremenda. Quel “dopo” è presente in ogni discorso, anche quando decidi cosa mangiare e come occupare, in attesa del momento giusto, una bella giornata di sole. In libreria non è il caso di comprare un libro interessante ma voluminoso, perché non potresti finirlo.
C’è sempre la tentazione di vedere nei contrattempi un segno provvidenziale, un invito a cambiare propositi. È l’idea che sfiora Moore quando Swinton non riesce a trovare nel bagaglio la fatidica pillola, e devono rientrare a New York per cercarla. Sono le perdite di memoria causate dal «cervello chemioterapico», come la perdita di tutti i piaceri conosciuti, la lettura in primis. «Ho provato a leggere tutti i miei autori preferiti, Faulkner, Hemingway – dice Martha – ma l’incantesimo non c’è più». La musica è tra i piaceri che sbiadiscono: «Ascolto solo il canto degli uccelli». Sono tappe intercettate con minuzia clinica, ma non c’è disperazione, perfino la mestizia è temperata dall’ironia e da un controllo delle emozioni che per la corrispondente di guerra è un bagaglio professionale.
Parla con loro
La fine arriva senza preavviso. Ingrid è uscita per incontrare il suo Turturro, che pronuncia l’unica battuta strettamente politica del film: «Niente accelererà la fine del pianeta come il perdurare del neoliberismo e l’ascesa dell’estrema destra».
Al suo rientro trova la porta di Martha chiusa: era il segnale concordato. E l’interrogatorio che subisce presso il commissariato locale è agghiacciante, un terzo grado da criminale. «Io sono un uomo religioso e il suicidio è un reato», proclama il poliziotto inquisitore.
Se c’è un espediente cinematografico principe per dire che non moriamo del tutto, che qualcosa di noi sopravvive, è far interpretare alla stessa attrice la madre e la figlia. Sarà banale ma funziona. E il famoso finale di Joyce, opportunamente adattato alla vicenda vissuta, chiude il cerchio.
Tilda Swinton rinnova il legame con Pedro Almodóvar, che l’aveva voluta nel “corto” modaiolo assai The Human Voice. A essere molto pignoli, si può obiettare sul guardaroba d’alta sartoria sfoggiato dalle due star. Io non ci ho fatto caso. Ero assorbita da una conversazione che potrebbe svolgersi, in una congiuntura simile, tra due qualunque di noi: habla con ellas.
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