Il primo rap in italiano delle posse, il movimento universitario della Pantera, l’autoproduzione dei centri sociali, i laboratori nelle scuole con i bambini. Un viaggio lungo più di trenta anni, seguendo sempre le stesse stelle polari, ripercorso del documentario Una vita all’assalto di Paolo Fazzini e Francesco Principini. Militant A: «Il film è rassicurante perché fa capire che quello in cui credevamo c’è ancora. Si è evoluto, è diverso, ma c’è ancora»
«Davanti al fuoco nella strada la nebbia si dirada. Batti il tuo tempo». La scalinata della Sapienza, colma, accoglie il rap istintivo dell’Onda Rossa. Posse. È il 1990 e Roma ascolta il suo primo brano hip hop in italiano. Anno dopo anno una sequenza di immagini attraversa i centri sociali e le piazze italiane. Roma andata e ritorno. Fino al 1° maggio del 2022 al Forte Prenestino, 30 feste del Non lavoro dopo. Sul palco c’è sempre lui, Militant A, voce di quella prima posse diventata poi Assalti Frontali. Nato e cresciuto col movimento dei ‘90 ne ha incarnato storia e parole.
Una vita all’assalto, il documentario di Paolo Fazzini e Francesco Principini, distribuito dalla Mompracem dei Manetti Bros (con Carlo Macchitella e Pier Giorgio Bellocchio) parte da qui per un viaggio che ha anche le voci di Caparezza, Elio Germano, Ice One. Vincitore del Premio del pubblico al Biografilm di Bologna, continua a girare le città italiane, il 30 ottobre sarà ad Aosta. «I registi hanno voluto raccontare la nostra storia proprio ora che il rap è così diffuso», racconta Militant A.
Il documentario parte dalla fine degli ‘80, dalle trasmissioni rap nella storica (e ancora viva) radio dell’autonomia romana, Onda Rossa.
Io e Castro X ci eravamo innamorati di quell’arte che stava rivoluzionando le strade. Usciva dai ghetti americani, lì dove c’erano gli ultimi degli ultimi, sembravano destinati a una vita di violenza e di emarginazione. Ma sono evasi dalle sbarre grazie alla bellezza della musica, dei graffiti, incantando il mondo. Venivo da quegli ‘80 che si erano lasciati alle spalle il movimento rivoluzionario dei ‘70 e che ancora non si capiva da che parte sarebbero andati. Noi abbiamo portato quel linguaggio in Italia e, insieme al movimento che si andava formando, abbiamo cambiato quello intorno a noi.
Come descriveresti quel periodo storico?
Era appena nata la Pantera contro l’ingresso dei capitali privati nelle università. Si respirava un’atmosfera fantastica, un movimento creativo che mischiava la festa con la lotta, la manifestazione con il concerto. Nascevano comunità capaci di creare consenso e che si resero protagoniste scegliendo la via dell’autogestione. È stato un grande strumento di cittadinanza per migliaia di ragazzi che si sarebbero sentiti altrimenti esclusi. E che si riversarono poi nei centri sociali. Gran parte del film è ambientato in quei ‘90, sono immagini inedite e preziosissime come quelle delle 00199, primo gruppo writer tutto al femminile. Si vede anche il premio Oscar Salvatores, che aveva voluto un nostro brano per il suo Sud, immergersi in quel mondo. Un pezzo di storia che le nuove generazioni dovrebbero conoscere.
Erano gli anni in cui anche il punk iniziava a essere cantato in italiano. Siete stati influenzati da quella musica e dall’attitudine al Do It Yourself?
Considera che non c’era una scena hip hop, c’era la scena underground dove tutti i generi erano mischiati: reggae, rap, punk. Tanto che i Brutopop, che si definivano post punk, hanno suonato le basi dei primi album degli Assalti e che per Conflitto abbiamo chiamato dall’America Don Zientara, il produttore dei Fugazi. Non era una particolarità romana, anche i bolognesi dell’Isola Posse di Neffa e Deda erano mescolati al punk dei Negazione.
Conflitto ha rappresentato il punto più alto dell’autoproduzione?
Era subito dopo la Pantera, i numeri del movimento altissimi, abbiamo voluto fare una scommessa realizzando ogni passaggio in un centro sociale, il Forte Prenestino, dove abbiamo costruito Musica Forte, lo studio di registrazione ancora attivo. Volevamo un circuito alternativo al mercato musicale: era il nostro sogno. Lì per lì ha pure funzionato. Distribuiti da ilmanifesto, abbiamo venduto 25mila copie in una settimana, cifra impossibile oggi. Abbiamo toccato la vetta, poi tutti i limiti dell’autoproduzione, ma soprattutto della distribuzione. E capito che la nostra esperienza non era riproducibile.
Poi Banditi e la firma con una major, ma è durata poco. Non ha mai pensato che fosse un’occasione persa?
Le altre posse lo avevano già fatto, mi sentivo l’ultimo giapponese. Banditi è stato un disco rivoluzionario, iconico, e rappresenta un po' l’unione tra il rap militante e l’hip hop americano di Ice One, produttore di gruppi come i Colle der Fomento. Dopo un anno abbiamo rescisso consensualmente. Eravamo figli del movimento del ‘90 e proprio come quel movimento non abbiamo mai voluto far parte del mercato né delle istituzioni. Ogni gruppo deve trovare la propria strada, la nostra è quella dell’autoproduzione.
C’è stato un momento in cui è cambiato tutto?
Sì, il G8 di Genova nel 2001. Durante la Pantera George Lapassade ci disse che noi eravamo parte dell’istituente, quella forza creativa che, dal basso, portava istanze, a livello anche artistico, linguistico, sociale, politico, cercando di creare consenso. E che nella sua battaglia contro l’istituito, ovvero il potere dello status quo, rendeva la società più libera. Quel movimento è diventato immenso e globale e ha visto il suo apice al g8 di Genova. Eravamo una forza grandissima perché capaci di stare tutti insieme, dalle suore agli anarchici. Ma quando si smette di stare insieme quella forza si perde. È stato anche il momento in cui il rap è diventato famosissimo e i nostri contenuti più difficili da diffondere. Nel film lo dice Castaldo: la musica viene prodotta e desiderata dentro la società e in questo momento la società desidera solo profitto e piacere.
La storia degli Assalti, però, non è finita a Genova. Come è cambiata la vostra musica?
Abbiamo capito quanto avessimo bisogno della società e quanto la società ne avesse di noi. Nei ‘90 avevamo fatto tutto da soli: imparato a prendere spazio e diritti senza istituzioni, partiti, sindacati. La società invece aveva un po’ dimenticato cosa vuol dire lottare, anche nei quartieri. Aveva bisogno della nostra cultura. Poi è nata la mia prima figlia e sono tornato in una scuola dove ho incontrato una dirigente meravigliosa, Simonetta Salacone, che mi ha detto: vieni a fare rap con i bambini. Con loro è nato il “rap della Costituzione”. Attraverso i loro occhi ne ho riscoperto e apprezzato i principi: il ripudio della guerra, la libertà di opinione, il lavoro. Il mio rap è cambiato. Prima scrivevo per la mia comunità, poi ho iniziato a rivolgermi a tutti quanti, mi dovevo far capire. E sotto il palco mi sono ritrovato dagli anarco insurrezionalisti alle maestre. C'è stato chi ha iniziato a dirmi: ma tu non eri quello che cantava «senso dello stato uguale zero»? Sì, sono quello ma sono anche quello del Rap di Enea e della storia di mamma orsa. Sono questo e l’altro, tutto può stare insieme. Come a Genova, quando in piazza c’erano i boy scout con gli autonomi.
Cosa insegna nei suoi laboratori rap?
Io non insegno a rappare, perché quello si impara per strada. I miei laboratori sono un percorso di comunità, di inclusione, di crescita. Magari faccio ascoltare ai bimbi la canzone per Simonetta per far capire loro che la scuola, che odiano e vivono come una prigione, è e deve essere «pubblica, laica e solidale». Perché è il risultato di 200 anni di lotte di pedagoghi, di maestre e maestri che hanno fatto in modo che sia di tutti. In questo percorso persone che magari sono emarginate dal gruppo diventano centrali, protagoniste della loro vita, capiscono l’arte. È l’"arteducazione”, la pedagogia del desiderio. Non ti sto insegnando niente, ma ti aiuto a tirare fuori il fuoco dentro di te. Questo percorso che faccio nelle scuole e nelle comunità lo riporto nei dischi degli Assalti, si crea una sorta di cervello collettivo.
Il film è stato un modo per viaggiare nella vostra storia. Cosa le è restato addosso?
Un professore universitario ci ha dato una definizione che mi sento di adottare: «Gli Assalti sono passati dal rap delle barricate al rap di cura». E per cura intendo quella del territorio, delle persone, della comunità, delle nuove generazioni. Continua a esserci un legame forte con quello che eravamo 30-40 anni fa, con quei desideri, quella voglia di cambiamento, il ripudio della guerra una costante. E il film, in questo, è rassicurante perché fa capire che quello in cui credevamo c’è ancora. Si è evoluto, è diverso, ma c’è ancora. Continuiamo a provare a rendere migliore il mondo, anche se lo facciamo in un altro modo.
© Riproduzione riservata