La cancel culture è uno dei fili che attraversano il nuovo album di Kendrick Lamar, rapper di Compton/Los Angeles, il più importante e ascoltato della sua generazione, premio Pulitzer per il precedente Dawn: «Che cos’è la cancel culture, fratello? Io dico quel che voglio di voi niggers, sono come Oprah. Tratto voi come tratta i bianchi Jigga». Un rapper – che di parole vive, e di credibilità – non può accettare limiti sociali alla sua espressione. Dice quel che vuole. La posizione di Kendrick non è diversa da quella di Kanye West. Neppure, a pensarci bene, da quella delle superstar di un altro sport estremo della parola, la stand-up comedy, da Dave Chappelle a Ricky Gervais ormai più impegnati a sfidare la cancel culture (vera o presunta) che a far ridere, quasi.

Bisogna aiutarsi con le note a pie’ di pagina per orientarsi meglio (in rete c’è un’intera costellazione di siti che traducono e spiegano i testi hip-hop): Oprah Winfrey e Jay-Z (Jigga) discussero a suo tempo l’uso della cosiddetta n-word, misurando il disaccordo generazionale tra chi difendeva la rispettabilità acquisita con la lotta per i diritti civili e chi invece pensava che di certe parole ci si dovesse in qualche modo riappropriare. All’epoca Kendrick Lamar, schierato dalla parte di Jay-Z, arrivò a sostenere che nigga derivava da Negus, il re etiope.

Non ha mai abbandonato la n-word in nessuno dei suoi 5 album. Né il resto del vocabolario. Crackers i bianchi. Bitch le ragazze. Ora, in Auntie Diaries racconta la transizione di genere di uno zio e di una cugina ripercorrendo di proposito tutti gli errori e i deadnaming fatti da ragazzino a Compton, ripetendo più volte la parola faggots perché alle scuole elementari «non avevamo niente di meglio». Qualcuno storce il naso. Più per l’esile morale della favola («il cuore gioca in modi che la mente non immagina») che per le parolacce esibite con ingenuo spirito di provocazione. Nel finale di N95 riflette: «Mi avevano insegnato che la parole erano nient’altro che un suono, se pronunciate senza intenzioni». E ricordando un incidente capitato durante un concerto conclude: «Potrai dire faggot soltanto quando consentirai a una ragazza bianca di dire nigger».

Che è il lato più umano, diciamo così, del disco. Decostruzione senza risparmio della mascolinità di un ex ragazzo di Compton e di tanti altri come lui: figli di padri assenti o incapaci di affetto, cresciuti in famiglie dove le molestie e le violenze si trasmettevano come in una maledizione. Black Trauma. «So il segreto/ degli altri rapper abusati sessualmente/ lo vedo ogni giorno come nascondono il loro dolore nelle catene e nei tatuaggi», rappa in Mother I sober.

Folla anonima

Dopo cinque anni di silenzio, lontano da ogni social, un probabile blocco creativo, mai neppure una parola detta durante le rivolte di Black Live Matters, la recente apparizione al Superbowl con Jay-Z, Eminem, Mary J. Blige, Snoop Dogg. La foto di copertina di Mr. Morale and the Big Steppers (opera della giovane fotografa Renell Medrano) mostra Kendrick Lamar in maglietta, voltato verso il muro di una stanza. Tiene in braccio la figlia di 2 anni (mai rivelato il nome) che guarda l’obiettivo imbronciata. Ha una corona di spine sulla testa e una pistola infilata nella tasca di dietro. Sul letto di fronte la compagna Whitney Alford e il figlio appena nato, Enoch. È una messa in scena grave, esageratamente realistica, come un grande dipinto ottocentesco.

«Canto Baby Shark con mia figlia/ e intanto sto attento agli squali che si muovono fuori», racconta in Worldwide Stepper, uno dei 18 capitoli del diario. Autofiction egocentrica, claustrofobica, totalmente antisocial. L’orrore nei confronti dei molti che «trovano la propria vita dentro un telefono», la folla anonima della cancel culture: «Sono un assassino/ lei è un assassina/ zombi che camminano e si grattano il prurito». Antisociale: «I media sono la nuova religione, avete ucciso la coscienza». Antipolitico: «Sono stato vicino a gente che stava con il popolo, erano tutti avidi come gli altri».

Nella discussione seguita all’uscita del disco – uno dei più importanti dell’anno, accolto da peana di ogni genere – le critiche più decise sono arrivate da alcuni critici afroamericani. Per Stephen Kearse di Pitchfork le critiche alla cancel culture sono ingenue, un non argomento che non spiega la vita delle persone ricche e famose. Sheldon Pierce del New Yorker trova Kendrick «sopraffatto dai suoi obblighi». Arrivato, dopo il Pulitzer, a voler spezzare gli stessi confini della sua arte. Se negli anni Novanta i Public Enemy dicevano di essere la Cnn dei neri e costruivano così l’egemonia linguistica e culturale dell’hip-hop, ai giorni nostri Kendrick Lamar sente il bisogno di smontare tutto, «due passi lontano dai rappers/ non mi fido delle loro intenzioni» (Purple Hearts). Cercare la verità e la sincerità non dentro la retorica dell’hip-hop, ma fuori. Rischiando parecchio: «Ho chiesto a dio di parlare attraverso di me/ è quello che sentite adesso». Anche il ridicolo. «Pesante è la testa di chi ha scelto di portare la corona», cita Shakespeare in Crown.

Raccontare un disco commentando soltanto le parole è sempre uno sbaglio. La musica è drammaturgia, è messinscena. Può cambiare tutti i sensi, aggiungere ambiguità. Eppure ci sono molti momenti in Mr. Morale and the Big Steppers nei quali la performance di Kendrick Lamar appare profondamente solitaria, animata da un flow soltanto mentale. Il nutrito gruppo di collaboratori, producer, rapper che si accalca attorno a lui sembra lavorare a posteriori, dentro i silenzi (come faceva Ennio Morricone con le canzonette), più spesso in contrappunto. Si ascoltano pianoforti di jazz cerebrale, oscuri sample anni Settanta, le claquette del tip tap. Paradossalmente uno dei pezzi più omogenei e orecchiabili, Purple Hearts, è proprio quello in cui Kendrick proclama «io non faccio parte del music business/ sto nel business umano».

«Non salvo il mondo»

Profondamente credente dai tempi dei Good kid, m.a.a.d City, due volte battezzato, niente droghe né alcool, sempre in lotta con i demoni del sesso – proprio come i vecchi bluesman torturati e sporcaccioni – l’amore sofferto per la compagna Whitney, probabilmente in terapia (dallo Strizza, proprio come nell’ultimo singolo di Marracash, il rapper italiano oggi più vicino alla sua lezione). Il rapper di Los Angeles ha incontrato in questi anni anche l’insegnamento di Eckhart Tolle, il bestsellerista tedesco canadese de Il potere di adesso.

E c’è rimasto sotto. Il distacco della coscienza presente dal pain body, il superamento dei traumi del passato, l’ansia del futuro finalmente placata. Gli insegnamenti di Tolle si traducono qua e là in versi talora oscuri (come un Battiato ai tempi di Gurdjeff). Altre volte la voce del maestro affiora in brevi skit. Il cammino di purificazione allontana Kendrick Lamar dai destini amari e maledetti del ghetto, dalle speranze (deluse) della politica. Il passato, il futuro. Anche dalla “culture”, come la chiama lui, dell’hip-hop. Concluderà in Savior: «Io non salvo il mondo/ Sono troppo occupato a costruire il mio». Due anni, fa nel momento più infuocato di Black Lives Matter, una giovane rapper di Chicago fece un tweet prendendosela con il silenzio «dei vostri rapper preferiti». 

A lei, che si chiama Noname e il tweet lo ha poi cancellato, Kendrick dedica parecchia attenzione. Un fischio alle orecchie, forse il brivido freddo della cancel culture (quella vera, non i fantasmi formaggini dei nostri dibattiti). «Una protesta per te/ 365 giorni per me», risponde a distanza in Savior, usando il controargomento della superficialità della woke culture. Aggiunge: «Non me ne frega nulla di parlare in pubblico/ si chiederanno dove sono/ proteggo la mia anima nella valle del silenzio». Più interessante, già vista nel disco di Kanye West, è l’idea (teatralissima) di ospitare i featuring di Kodak Black, trapper venticinquenne che dopo una serie di guai con la giustizia (violenza sessuale, possesso d'armi, false dichiarazioni) e una condanna pesante è stato graziato da Donald Trump nel suo ultimo giorno di presidenza.

«Ci sono i pro-Black. Io sono per Kodak Black». Scavando così un fossato definitivo tra sé e le residue speranze di una coscienza collettiva. Il rap quando parla di noi lo fa nella sua lontananza estrema. L'esotismo del ghetto di Compton (dove è nato lo stile gangsta negli anni Novanta), fa ora il paio con le paranoie della vita da celebrità. Due anni di pandemia, cinque anni a metter su famiglia, i figli. Macchinone scuro, Benz, vetri oscurati, orologi grossi, Ap, Audemar. Il segreto nella felicità in un presente stretto come un cuoricino su Instagram, «la vita che dipende da due tocchi sul telefono», lo sterminio della società e della politica, la paura di perdere tutto all’improvviso.

 

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