È successo alle porte del tour in Europa, Bob Dylan ha cominciato a usare X nella sua maniera scherzosa, assurdista, criptica. Il primo tweet risale alla fine di settembre, il primo di suo pugno, non uscito dalla strategia di qualche social media manager per promuovere qualcosa. «Happy Birthday Mary Jo! See you in Frankfort». Auguri di compleanno a una misteriosa Mary Jo: chi è Mary Jo si domanda la rete, e cos’è questo appuntamento a Francoforte. Per il resto, non ci si fa troppo caso.

Nei giorni seguenti Dylan twitta ancora, raccomanda un ristorante di cucina creola a New Orleans, poi vola a Praga per la prima data del tour nel vecchio continente. Per una stramba combinazione la sera del concerto alla O2 Arena c’è anche una partita di hockey, i Buffalo Sabres contro i New Jersey Devils.

Bob Dylan annota su X l’arruffato episodio in una manciata di battute. Scrive di avere incontrato uno dei Buffalo Sabres nell’ascensore dell’hotel, il tizio lo ha invitato alla partita, lui però quella sera aveva il concerto. Fine della storia. Chi inciampa nei tweet di Dylan comincia a divertirsi.

Il microracconto più esilarante arriva però qualche giorno dopo, a Francoforte, la città del fantomatico appuntamento con Mary Jo. Nei giorni del concerto c’è anche la Fiera del Libro, la Buchmesse: tutta la città è preda della mania editoriale, la gente gira per strada reggendo libri e recitando sonetti. Dylan racconta come nel mezzo di questa festa mobile anche lui abbia provato a cercare un editore, la Crystal Lake Publishing, per proporre alcuni suoi racconti: «Sfortunatamente era troppo affollato e non li ho mai trovati».

La Crystal Lake è una poco conosciuta casa editrice di dark fiction e horror, in quei giorni è presa d’assalto da chi vuole un’intervista o scrivere un articolo. Certo che alla Crystal Lake sarebbero interessati a pubblicare i racconti di un Premio Nobel per la Letteratura, ma come rintracciarlo. Dove se n’è andato.

Le persone cominciano a interrogarsi: perché Dylan twitta, perché uno così refrattario alle interviste e alle dichiarazioni annota sparigliati nonsense episodi di vita quotidiana sul social più contestato del momento. I più attenti cercano segni, parabole. Sono tweet e x-s come gli altri, sussurrano i riluttanti. Invece di scrivere fesserie perché non usa il mezzo per fare campagna contro Donald Trump, si domandano gli esperti.

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Il social del diavolo

Il caso vuole che proprio nei giorni in cui Bob Dylan comincia a twittare, accade il più grande esodo di massa della storia di X, o almeno così sembra. Donald Trump vince le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, a supportare il nuovo presidente c’è Elon Musk, proprietario di X e signore feudale del tech: lasciare il social diventa un gesto di dissidenza politica. Dal Manzanarre al Reno si spande il furore del boicottaggio. Un gruppetto di timidi dylaniani pensa: non posso andarmene proprio adesso che Dylan twitta. Alcuni vanno, altri restano. Per molti giorni Bob Dylan se ne sta in silenzio. Non commenta niente: Trump, Harris, Musk, X o non X, essere o non essere. Sta ancora girando per il tour di Rough and Rowdy Ways tra l’Inghilterra e la Scozia.

Da qualche parte un ragazzino americano si domanda se il silenzio di Dylan non voglia dire qualcosa. Che le parole sono dappertutto, persino nel silenzio, lo appuntava uno scrittore cileno. Si cominciano a battere a macchina pensieri sul silenzio e la scomparsa della parola e il suicidio dell’io. Intanto Dylan suona e canta da menestrello, e quelli che vanno ai suoi concerti cercano di imbucare il telefono per immortalare il momento in una fotografia o un frammento video.

Da Nick Cave

Poi da un anfratto del moribondo sogno americano, e dal nulla di una notte di novembre inoltrato, Bob Dylan torna su X come se nulla fosse. Si svela spettatore di concerti altrui. Racconta di essere andato a Parigi a vedere Nick Cave il 17 novembre, e di avere molto apprezzato una canzone, Joy, quella che dice: «Abbiamo avuto troppa tristezza, ora è il momento della gioia». Seduto al suo posto anonimo tra la folla con la sua chioma di diamante e ruggine, di Dylan non si era accorto nessuno – a complete unknown, nel puro stile straniero di Robert Zimmerman che si fece Dylan come il poeta gallese.

Anche questo frammento in forma di tweet provoca un cortocircuito. Dylan è tornato, si cercano i segni nella sua parola come da sempre è successo con le parole delle sue canzoni, o con la copertina dell’ultimo album Rough and Rowdy Ways. C’è chi legge nel tweet un contorto segno di approvazione a Musk; chi ci vede una dissociazione. Ma Dylan resta silenzioso nel suo mumble mumble.

È un cantastorie, sempre in cerca di parole ruggenti da buttare giù. Tutto il resto – le risposte – se ne vanno nel vento.

L’ultimo tweet è di qualche giorno fa, a inizio dicembre, quando Dylan ricorda che presto nelle sale americane uscirà il film A Complete Unknown, la pellicola che racconta il giovane irrequieto Dylan interpretato da Timothée Chalamet, che ha raccontato di avere studiato anni per calarsi nel personaggio, imparare l’armonica e cantare nella maniera più dylaniana possibile.

Il film è basato sulla biografia Dylan Goes Electric! di Elijah Wald e ripercorre gli anni Sessanta fino al festival di Newport 1965, dal folk di protesta alla svolta elettrica. Sono gli anni in cui un giovane acrobata con la chitarra sotto il braccio scrive canzoni eterne una dopo l’altra: A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Girl from the North Country, Blowin’ in the Wind, Don't Think Twice, It's All Right. Nei Sessanta Dylan è un narratore istintivo che butta giù tutto velocemente, penetra nel cuore rivoltoso d’America, duetta con Joan Baez prima di abbandonare i raduni delle canzoni di protesta per un sussulto interiore.

E dunque nel suo ultimo tweet Dylan invita ad andare al cinema e promuove un film sulla sua giovinezza, come un giovane invecchiato che ha voglia di tornare indietro nel tempo, a un periodo arruffato, fatto di strade e sogni niente affatto patinati. Saprà il film di James Mangold raccontare la tremula epopea che scosse il rock senza stratagemmi?

In Italia c’è tempo per parlarne, il film uscirà a metà gennaio, gli articoli sono già pronti, e chissà se intanto Dylan twitterà ancora o se frattanto non si sarà spostato verso cieli blu, o rintanato in pagine di quaderno dove i cantastorie sempre tornano e le parole scendono come il vento. Nel dubbio lui conserva zero following, non segue nessuno.

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