Con l’aiuto di sua figlia Elisabeth, nella casa in Provenza acquistata con i soldi del Nobel per la letteratura, gestisce e governa l’eredità letteraria dello scrittore francese: «Un uomo divertente. Diceva che il calcio insegna come la palla non arriva mai dal lato in cui te la aspetti». L’infanzia, le discriminazioni a scuola per le origini modeste, l’epistolario tra Albert e la sua amante. E poi il presente: «I rivoltosi oggi? Glucksman, Saviano e Zelensky»
L’allergia al polline, oggi, tormenta un po’ Catherine Camus, e però non le fa perdere il sorriso e anzi le risate quando prende in giro certi politici di Francia. Alle sue spalle un arco in mattoni bianchi e librerie stracolme di libri e di carte. Al suo fianco la figlia Elisabeth, la aiuta nella gestione dell’eredità paterna. È nella casa di Lourmarin in Provenza, acquistata dal padre con i soldi del Nobel per la letteratura, ricevuto a soli 44 anni. Lo straniero è ancora tra i libri più letti nel mondo. In Italia Il mito di Sisifo, La peste e altri romanzi, saggi e opere teatrali dello scrittore sono state pubblicate da Bompiani, l’ultimo è Caro Signor Germain. Albert Camus, nato nel 1913, è morto in un tragico incidente 65 anni fa. Nella sua borsa, tra i rottami dell’auto, il manoscritto incompiuto de Il primo uomo. Catherine aveva solo 14 anni.
Albert Camus in un aggettivo da figlia?
Divertente. Sì, divertente. Eravamo felici con papà. Tutto il tempo.
Giocavate insieme, con suo fratello gemello Jean?
Sì, a calcio, nel prato accanto a casa. A me piaceva un sacco.
A 17 anni Camus era il portiere del Rua, la squadra dei francesi d’Algeria. È vero che diceva che sul campo da calcio aveva imparato tutto sulla morale?
Diceva che il calcio, quando giochi in porta, ti insegna che la palla non arriva mai dal lato in cui te la aspettavi.
Era severo?
Severo ma giusto. Non si doveva mentire. Bisognava rispettare gli altri. E fare il letto alla mattina. Credo che soprattutto volesse educarci al fatto che la libertà non viene senza responsabilità. Anche se per noi da bambini non era semplice.
I ricordi più nitidi?
Il giorno che vado da lui e gli dico: «Papà, mi annoio». Lui mi risponde: «Non è possibile». E io insisto: «Mi annoio tanto». «Impossibile». «Solo gli imbecilli si annoiano». E poi quella volta che è in poltrona e gli chiedo se sia triste. Mi guarda: «Sono solo».
Da 40 anni, Catherine, lei lavora sull’eredità di suo padre.
Con umiltà e ostinazione, sì.
Sente di doverlo difendere?
No, mio padre cammina da solo. Anche se è morto molto giovane ha detto quello che doveva dire. Non c’è bisogno di proteggerlo. E poi… ogni volta che lo attaccano, sono felice. Perché mi dico: li fa ancora incazzare.
Albert Camus fu caporedattore del giornale Combat, il giornale clandestino della Resistenza. Mai neutrale, contro ogni totalitarismo.
Nel 1952, quando Hannah Arendt venne a Parigi, disse che l’unico uomo che valeva la pena di incontrare in città era mio padre. Era contro i campi di concentramento, ma pure contro i gulag. E per la sinistra, allora, dirlo era tradire l’ideologia.
Lo amano i dissidenti.
Da giovane ho sentito raccontare in un convegno che nei Paesi dell’Est, tra i dissidenti, ci fu chi venne addirittura deportato per aver letto letteratura francese, lui era tra gli autori tradotti.
C’è però chi ancora lo considera troppo a destra della sinistra…
E troppo a sinistra per la destra, come allora.
Nel 1952, dopo la pubblicazione de L’uomo in rivolta, a un giornalista che gli chiedeva se fosse un uomo di sinistra rispose: «Sono ancora di sinistra, nonostante la sinistra e nonostante me stesso».
Penso che lo direbbe a maggior ragione oggi. In Francia, e in Italia, la sinistra si sta suicidando da tempo. È terrificante, quello che sta facendo la sinistra. In Italia ha permesso Berlusconi e ora Meloni. Ma questo, se vuole, non mi riguarda. E però in Francia è lo stesso: prenda Mélenchon. Sono più di 50 anni che lo conosco, presto saranno 60. Non sogna che una cosa: distruggere il Partito socialista e distruggere tutto. Quando ero giovane ero un’attivista, avevo la tessera del Parti socialiste. Anche lui era nel partito, allora. Parlava solo di smantellare e distruggere, nessun cambiamento. A capo del PS poi c’è Olivier Faure.
Lo stima?
Un couille molle, so che non si potrebbe dire ma lo dico lo stesso (interviene la figlia, Catherine si diverte: ci chiede se l’espressione francese che coinvolge gli attributi maschili sia chiara, ndr). In Francia la maggior parte degli intellettuali delle università rimane fedeli al pensiero di Sartre. Papà non era intellettuale.
Chi sono gli uomini in rivolta, oggi? Trump e Musk, per qualcuno, lo sono. Per lei?
Quei due sono il simbolo del capitalismo, schiavi entrambi dei soldi. Null’altro. Lo trovo spaventoso, non ho molto da aggiungere. Sulla situazione di oggi parlo a mio nome, ovviamente. Papà è morto e non posso certo parlare per lui.
E però chi direbbe in rivolta, oggi, per come le appartiene dopo anni di letture il concetto di suo padre?
Forse si sorprenderà, ma penso che siamo fortunati ad avere in Francia Emmanuel Macron presidente. Non so da voi in Italia, ma dalle nostre parti appena si elegge qualcuno, due giorni dopo lo si detesta, succede sempre così. E però ha dimostrato di essere qualche metro sempre avanti agli altri, e questo non piace ai francesi.
Perché?
Forse perché pensiamo che dobbiamo essere tutti al livello delle margherite (ride). Forse ci sarebbe anche Raphaël Glucksmann – il leader di Place Publique, scrittore ed eurodeputato – ma è un po’ solo. Degli italiani mi piace Roberto Saviano, ha un coraggio fenomenale e non si arrende. Mi ha colpito quando ha detto che non sa se riscriverebbe Gomorra perché gli ha distrutto la vita. E poi c’è Zelensky, che continua la lotta nelle condizioni che tutti conosciamo. Papà diceva «mi rivolto, dunque siamo».
Con il noi al posto dell’io. Fu una ragazza ribelle, Catherine, dopo la sua morte?
Frequentavamo un liceo molto borghese, e c’era un grande parco, che preferivo ai professori. Alcuni erano fantastici, per carità, ma quella di filosofia... penso di aver smesso di studiare filosofia per colpa sua. Mi diceva. «Signorina Camus, ha letto il suo L’Étranger? Perché dai suoi compiti non sembra». Io la ignoravo. Si chiamava madame Burgelin. A scuola la maggior parte delle ragazze veniva dal settimo arrondissement (a Parigi, la zona della Torre Eiffel) e dicevano cose tipo «non potrei mai stringere la mano a un uomo della classe operaia» anche se la famiglia di mio padre proveniva da un ambiente più che modesto.
Nato da famiglia francese in Algeria, rimasto presto orfano di padre, Camus conobbe le difficoltà economiche.
E quella professoressa ci giocò, in classe, su questo. Ci aveva chiesto in un compito le professioni dei nostri nonni, apposta: normalmente si chiede solo quella dei genitori. Una ragazza della mia classe non mi fece passare e sputò per terra dopo aver saputo che i genitori di mio padre erano una signora delle pulizie analfabeta e un operaio agricolo.
Lei?
Le lanciai addosso una sedia, facendola cadere. Fui mandata in direzione, come spesso accadeva.
Fino all’incidente, Albert Camus ebbe una relazione con l’attrice Maria Casarès, parallela al matrimonio con sua madre Francine Faure. Nella prefazione del loro epistolario di 12 anni (Saremo leggeri, pubblicato di recente da Bompiani) lei, Catherine, li ringrazia per essere esistiti.
Maria Casarès ha reso pubblico il suo libro di memorie Residente privilégiée solo dopo la morte di mia madre. È stato un gesto delicato, molto rispettoso. A 17 anni chiesi a mia mamma: «Ma com’è, Maria?». Appena lo domandai sperai che mi rassicurasse. Mi rispose gentilmente: «Lei è come te». Mamma probabilmente sapeva che papà non avrebbe mai potuto superare tutto quello che ha attraversato senza Maria. Nel 1950 lui le scrisse: «Quel che ciascuno di noi fa nel suo lavoro, nella sua vita, non lo fa da solo. Ha accanto una presenza, che è l’unico ad avvertire».
© Riproduzione riservata