Forse a guardala sul serio nessuna città è mai raccontabile con una sola dimensione. Napoli, ancor meno di altre, poiché resta una città refrattaria alle semplici letture, sfuggente agli stereotipi di cui pure è continuamente vestita, piena di contraddizioni, di questioni aperte e irrisolte, di divari sociali profondi, di arretratezza economica, così come di ricchezza culturale, capacità di resistenza e sopravvivenza in condizioni estreme.

Nel 1879, il giornalista Rocco De Zerbi – scrive lo storico Paolo Macry – sosteneva che coesistevano a Napoli due città, strette come l’ostrica allo scoglio. Una piccola città di élite, la perla dell’ostrica, e la città sconfinata del popolo miserabile, lo scoglio, mondi reciprocamente estranei.

Vent’anni fa con Enrico Pugliese e Enrica Morlicchio teorizzammo che forse ce ne sono anche più di due di città. Per sviluppo storico e condizioni sociali per noi ce ne era vent’anni fa almeno tre. Oggi a me pare di poterne dire almeno quattro.

Città operaia

Esiste la Napoli della dismissione, quella di Ermanno Rea, quella ex operaia che ha perso la propria identità forte e orgogliosa e non ha avuto modo di crearsene una nuova.

Quella che sta maggiormente sbiadendo nella costruzione del puzzle delle città di Napoli, ma che ancora c’è se pensiamo che le fabbriche a Napoli non mancano, da quelle piccole e piccolissime del lavoro nero, a quelle grandi per le quali le vertenze di resistenza ancora tengono accese le vite dei lavoratori, la vittoria della Whirlpool docet.

L’economia del vicolo

C’è la città dell’economia del vicolo, di Percy Allum, quella in cui un unico reddito da lavoro reggeva la vita di molti altri soggetti imbrigliati da lavoro irregolare e che oggi è stata sostituita – e ad essa è perfettamente sovrapponibile – dalla città del turismo, che ha fatto di ogni basso un bed and breakfast, di ogni anfratto un deposito bagagli, di ogni vicolo un oggetto di culto, che inventa tradizioni mai esistite e che come quella di Allum è una città che non si capisce quanto realmente guadagni da questa sbornia di turismo o quanto non ne sia sfruttata, nelle friggitorie e nei locali che a bizzeffe sono sorti.

Si tenga conto che l’offerta ricettiva del 2023 – stima il rapporto di cui sopra – conterebbe oltre 6 mila strutture, quasi sei volte il numero stimato recentemente dall’Istat (1.038) da Spaccanapoli a san Gregorio Armeno, dai Quartieri Spagnoli alla Sanità. Il cuore antico della città oggi è tutto offerto a turisti e visitatori, al suo servizio e ai suoi gradimenti. Quanto può vivere di solo turismo una città o anche una parte di essa? Per quanto tempo? Quanto altro lavoro nero e sfruttamento abbiamo aggiunto a quello precedente?

Tra Un posto al sole e Gomorra

La terza è la città di Un posto al sole, quella che da Posillipo a Palazzo Donn’Anna mostra con orgoglio quel golfo e quel mare (che non bagna le altre parti della città) e che vede la borghesia cittadina ricca, a volte ricchissima, concentrarsi e vivere di commercio, piccole attività imprenditoriali, terziario ricco e impiego pubblico, che guarda al resto della città con distacco e a volte con timore, sentendosi altro e in cui gli uni assediati e gli altri non controllati indicano in ogni caso un malessere e un mal governo della città stessa.

Oggi, aggiungerei, la città di Gomorra, del libro prima e della serie dopo. Quella delle periferia esterna – perché Napoli ha periferie anche interne come è noto – che viene visitata in tour guidati ad ammirare le Vele, le piazze di spaccio, i murales e il rione Luzzatti, ma di cui ci si è dimenticati la storia di mancanze, di degrado, di assenza di lavoro, analfabetismo e povertà, come le tragedie mostrano e i dati denunciano. E quella della periferia interna, i quartieri un tempo off limits Sanità, Forcella, Quartieri Spagnoli.

Una profezia avverata

Ma la rappresentazione di una Napoli dove tutto è tornato a brillare ed essere funzionante, senza più microcriminalità e spazzatura, in quel ballatoio, che crollava un mese fa a Scampia, è crollata anch’essa. O ha solo mostrato la sua parzialità. O il fatto che di città anche i dati dicono che ce ne sono diverse. Secondo le stime di Sociometrica, le attività turistiche di Napoli generano un valore aggiunto superiore alla soglia del miliardo di euro, collocando la città nel 2023 al sesto posto tra le città italiane per turismo.

Eppure, il I Rapporto Osservatorio Economia e società a Napoli dice che nel 2023 la città ha fatto registrare un tasso di disoccupazione del 29 per cento, quando quello nazionale è intorno 7 per cento (ed appare in diminuzione): un valore che è inquietante e sul quale non occorrerebbe più riflette, ma intervenire. Perché senza lavoro si muore. O si vive di troppo sommerso e nero che ancora attanagliano la città. 

Quello che è accaduto a Scampia un mese oggi, in fondo era una profezia, nemmeno tanto difficile da fare, che si è avverata. Bastava essere lì e operare in quei luoghi negli ultimi quarant’anni e studiare, misurare quello che accadeva, la crescente disoccupazione, la dispersione scolastica, le evoluzioni urbanistiche e gli interventi lenti e sporadici, per capire che “poteva accadere, doveva accadere”.

Non ci voleva molta fantasia per capire che incuria e mancanza di manutenzione denunciate da anni, che lentezze e indecisioni, cambi di governo, ma soprattutto assenza di politiche di sviluppo, malgoverno del mercato del lavoro e introduzione di interventi di workfare punitivi avrebbero prodotto danni, quando non disastri.

E dentro quella facile profezia, dentro quel finale a tutti noto ci sono le responsabilità pubbliche e le lentezze, il cinismo del privato e il fatalismo di quanti pensano che nulla potrà mai cambiare, perché non bastano tutte le serie del mondo girate in quei luoghi e nemmeno tutta la buona volontà delle 120 realtà del terzo settore, presenti a far cambiare le cose, se ci sono pochi fondi e nessuna regia.

Quanto è accaduto a Scampia è il frutto dell’inerzia e del pensare che tutto si può rimandare all’infinito – l’apertura del parco, la costruzione dei nuovi alloggi, la riqualificazione ambientale, sociale e produttiva, la messa in sicurezza dei luoghi, l’assicurazione dell’istruzione, della formazione e del lavoro – e invece poi il degrado arriva, la tragedia si verifica, perché come ben sanno le associazioni e le realtà tutte del terzo settore che lì operano, con passione, abnegazione e tenacia – se lasci incancrenire le situazioni pensando che quelle restino uguali a sé stesse sbagli, perché tutto peggiora, si corrode e crolla, dalle persone alle passerelle di ferro e cemento armato.

Città panico 

Quanto tempo ci vorrà perché dalle diverse Napoli ne venga fuori una un po’ più omogenea e equa? Città panico era il titolo di un libro di una ventina di anni fa di Paul Virilio, il filosofo che rifletteva su New York dopo la caduta del World Trade Center e su Bagdad dopo quella di Saddam Hussein.

Città panico è un concetto che si sarebbe potuto applicare a Napoli allora come oggi. Ci saremmo dovuti cioè mettere tutti – istituzioni pubbliche, terzo settore e privati – in uno stato di panico, di allerta permanente per un incidente sempre possibile, nei territori più fragili, annunciato e sventato troppe volte, in aree mai radicalmente ripensate e rigenerate. Nonostante o ad onta del progetto che ci stava, troppo lentamente, realizzando in quelle ore intorno al crollo a Scampia e che si chiamava reStart.

«Il futuro è sempre qualcosa di integro e uniforme. Nel futuro saremo tutti alti e felici» disse lei. «Ecco perché il futuro fallisce. Fallisce sempre. Non potrà mai essere il luogo crudele e felice in cui vogliamo trasformarlo» ha scritto Don DeLillo in Cosmopolis.

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