Perché siamo disposti a pagare un prezzo più alto per la cucina francese che per quella indiana o per la cucina giapponese rispetto a quella cinese?

Perché siamo inconsapevolmente soggetti a una gerarchia del gusto, argomenta Krishnendu Ray, professore di studi alimentari della New York University. Nel saggio The Ethnic Ristorateur (Bloomsbury Academic) Ray spiega come questa gerarchia sottintenda una regola basica: il valore che diamo a una cucina nazionale è influenzato dalla nostra percezione degli emigranti provenienti da quel paese.

Detto più brutalmente: esiste una relazione inversa tra la presenza dei poveri da qualsiasi regione del mondo e il nostro rispetto per la loro cultura e cucina. Di conseguenza valutiamo meno le cucine di stranieri percepiti come “meno fortunati”, mentre accettiamo un premium price per i piatti degli immigrati il cui status economico ci sembra nostri pari o addirittura superiori a noi.

Tralasciando la cucina francese, a lungo ritenuta il non plus ultra della raffinatezza, nell’area asiatica il prestigio maggiore tocca sicuramente al cibo giapponese, che dagli anni Ottanta-Novanta è diventato un modello per l’alta cucina, con chef occidentali d’élite che visitano i colleghi nipponici per imparare. Ray ritiene che il rallentamento dell’immigrazione giapponese negli Stati Uniti, così come l’emergere del Giappone quale potenza economica, abbiano contribuito a posizionare verso l’alto la cultura e la cucina giapponese.

E un po’ dovunque, in realtà, prodotti come il walkman o i videogiochi Nintendo hanno contribuito a rafforzare il soft power di questa nazione.

Se poi aggiungiamo che nel nostro paese la migrazione dal Giappone non è praticamente esistita e che i primi giapponesi arrivati qui sono stati uomini d’affari possiamo intuire perché anche in Italia il cibo del Sol Levante (sbarcato a Milano nel 1977 con il Poporoya, una bottega poi trasformata in sushi bar) sia diventato uno status symbol dalla fine degli anni Ottanta in poi.

Al contrario, poiché negli Usa la prima presenza cinese è stata composta da migranti impossibilitati ad assimilarsi e quindi disposti a fare lavori sottopagati, per molti anni il chinese food è stato ritenuto di scarso valore. In America il cibo cinese ha proliferato a seguito del Chinese Exclusion Act del 1882, la prima legge a vietare l’immigrazione di un gruppo di persone esclusivamente in base alla razza.

Tuttavia, racconta la storica del diritto Heather Lee, c’era un’importante eccezione a questa norma: gli imprenditori cinesi negli Stati Uniti potevano ottenere speciali visti commerciali per viaggiare in Cina e riportare indietro dei dipendenti.

Nel 1915 un tribunale federale aggiunse i ristoranti alle attività che godevano di tale trattamento di favore. Così "il numero di ristoranti cinesi negli Stati Uniti raddoppiò dal 1910 al 1920, e di nuovo dal 1920 al 1930", afferma Lee. Per attirare i clienti, i prezzi dovevano essere molto bassi, cosa resa possibile grazie allo sfruttamento dei lavoratori cinesi. Al contempo questo meccanismo ha anche contribuito a nutrire, è il caso di dirlo, l’idea vulgata che il cibo cinese sia preparato da manovalanza disposta e tutto e quindi di bassa qualità.

Per comprendere le diverse traiettorie in Usa della cucina giapponese e cinese, suggerisce Ray, basta leggere i costi di un pasto medio raccolti da Zagat, una guida molto nota. La spesa media per un pasto in un ristorante giapponese è passata dal sesto posto nel 1986 al secondo del 2014, dietro al cibo francese. In compenso nel 2015 il conto medio presso un ristorante giapponese per un pasto per una persona era di 68,94 dollari, mentre quello per la stessa cosa nei ristoranti cinesi era di circa la metà: 35,76 dollari.

E in Italia?

Una diversa valutazione tra la traiettoria seguita dal cibo cinese e giapponese si ritrova anche nel nostro Paese. A Milano la cucina cinese è apparsa con la Pagoda, un locale che risale al 1962 (di cui scrisse perfino Dino Buzzati). Eppure, «fino a 20 anni fa in via Paolo Sarpi (il cuore della Chinatown meneghina, ndr) ai balconi erano esposti cartelli non amichevoli verso una comunità straniera dedita all’import-export di merce misteriosa e poco capace di comunicare in italiano» ricorda Giulia Liu, 40 anni, esponente di una famiglia cinese i cui ristoranti a Milano rappresentano il meglio della ristorazione orientale.

Anche in Italia i primi ristoratori cinesi hanno puntato sul prezzo al posto della qualità. Finché, con l’arrivo nel 2003 della Sars, un’epidemia proveniente dalla Cina, molte attività cinesi hanno chiuso o si sono riconvertite in ristoranti giapponesi, a dispetto del fatto che, allora come oggi, solo una minima parte degli chef che vi operano sia davvero di origine nipponica. Anche la famiglia Liu è riuscita ad affermarsi nel capoluogo lombardo proprio facendo leva in modo strategico sul diverso “percepito” delle due cucine.

Ma, a differenza dei precursori, è emersa puntando verso l’alto e «sulla qualità della materia prima, per cui l’Italia è un modello in tutto il mondo» spiega Giulia. E così se suo fratello Claudio, come lei cresciuto in Emilia, ha proposto dal 2007 l’alta cucina giapponese, conquistando con IYO l’unica stella Michelin mai attribuita in Italia a un ristorante “etnico”, ora è Giulia a presentare una versione fine dining della cucina cinese, con il ristorante Gong. Ma l’affermazione dei due non è stata una passeggiata.

«Quando IYO ha aperto, nel 2007, la cucina giapponese veniva ancora vista come “esotica” e non considerata come alta cucina» rivela Claudio. «Proporre una versione raffinata e contemporanea del sushi (e, oggi della cucina kaiseki), con la precisione e il rispetto per la tradizione giapponese, non è stato semplice. All'inizio, abbiamo dovuto lavorare molto per far comprendere ai clienti il valore di una proposta culinaria che si distaccava dalla versione più economica e industrializzata del sushi.

Tuttavia la cucina giapponese è vicina alla cultura culinaria italiana, perché ne condivide la passione per la qualità della materia prima e la precisione nelle tecniche di preparazione. In Italia, inoltre, c’era già una forte cultura del pesce crudo, per cui avvicinarsi al sushi è stato un passaggio naturale per molti italiani, già abituati a sapori al tempo stesso delicati e complessi.

I clienti di Milano sono diventati i nostri maggiori ambasciatori, portando IYO (cui ora si aggiungono IYO Kaiseki e IYO Omakase, più il delivery e take away AJI) a crescere attraverso il passaparola e l’affluenza costante».

La clientela di IYO, fidelizzata dalla famiglia Liu, è stata la prima ad apprezzare Gong, il ristorante cinese aperto da Giulia nel 2015.

Allora la coraggiosa decisione di proporre alta cucina cinese è risultata meno azzardata di quanto potesse apparire in precedenza perché Expo (svoltosi nello stesso 2015), con la presenza di avamposti di cucine di tutto il mondo, ha sicuramente aiutato a rivedere i pregiudizi. In più, rispetto al 2003, è l’immagine stessa dei cinesi a essere mutata.

E così nel 2020, di fronte a una nuova epidemia di origine cinese, ovvero il Covid, «i clienti non ci hanno abbandonato. Al contrario, abbiamo ricevuto molte telefonate di ringraziamento durante la chiusura, quando abbiamo iniziato a fare il delivery»sottolinea Giulia.

Che le specialità cinesi siano cool lo documentano anche le code nella citata via Sarpi, dove i giovani italiani si affollano per i ravioli al vapore o per i bao, dopo aver riscontrato l’affermazione della cucina asiatica all’estero (in Francia già dal 2012 la Michelin ha premiato con la stella un ristorante cinese).

Ma soprattutto la novità è che ormai gli italiani di seconda generazione, come Giulia Liu, sono in grado di raccontare la propria cucina pur ricorrendo ai migliori ingredienti italiani: da Gong, per esempio, «i gamberi vengono da Mazara del Vallo e l’agnello è laziale» sottolinea Giulia.

In compenso, se i piatti cinesi sono diventati “fighi”, è l’immagine della Cina a non avere appeal. Il cibo come soft power cinese ha un problema nell’hard power cinese, ovvero del ruolo militare e strategico del Paese del Dragone come rivale tecnologico degli Usa o come amico della Russia. Inoltre, mentre la cultura del Giappone può contare sulla sua narrazione da parte di innumerevoli registi, a livello mediatico la massima visibilità per la cucina cinese è coincisa con il successo, negli anni Novanta, del film Mangiare Bere Uomo Donna. «Che però era un film taiwanese e quindi ovviamente non venne sfruttato politicamente per il posizionamento della cucina nazionale cinese» precisa Giacomo Natali, geopolitico e autore di Geopolitica Pop (Treccani).

Finora, insomma, la cucina cinese non ha saputo accattivarsi l’immaginario globale, non ha acquisito una dimensione aspirazionale, nonostante la sua lunghissima storia, la vastità di ingredienti e la molteplicità delle varianti regionali.

«Prova ne è il fatto che non ci sono grandi chef riconoscibili, che in altri casi spesso aiutano all'estero nel posizionamento della cucina tout court. Questa percezione sta gradualmente cambiando anche in Cina, ma è un processo ai primi passi» conclude Natali.

Giulia Liu concorda e, scherzando ma non troppo, si candida ad ambasciatrice nel nostro Paese della varietà e raffinatezza della cucina cinese. E davvero il momento di pianificare il rilancio della gastronomia della Terra del Dragone potrebbe essere vicino. Da quando è salito al potere nel 2013, il presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità che il popolo cinese nutra “fiducia culturale” nella storia e nei valori nazionali, con un’enfasi sulla cultura tradizionale. «Per quanto innocuo possa sembrare» scrive Vincent Chow sulla Los Angeles Review of books, «ciò che fa presagire è un regime che definisce sempre più la cultura in termini strategici».

Tuttavia per ora il messaggio è rivolto più all’interno del paese orientale che al suo esterno. Secondo Xi Jinping promuovere l’orgoglio nazionale, anche per le tradizioni culinarie, è una risposta alla percepita egemonia culturale degli Stati Uniti. Peccato che, «se si ritiene che la Cina abbia una ricca riserva di tradizioni e valori propri, allora non c’è bisogno di adottare quelli “occidentali”, come la democrazia e i diritti umani» conclude Chow. Per chi confida nel potere del cibo come veicolo di apertura culturale, è un boccone difficile da digerire.

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