È da Gran Torino che per ogni nuova regia di Eastwood si parla di film testamento. Ora una nuova summa artistica. Giurato numero 2 ci chiede cosa faremmo al posto del cittadino perbene chiamato a decidere su una colpa che è sua
La più bella sceneggiatura politica di sempre – e la più resistente all’usura del tempo – è probabilmente quella firmata da Reginald Rose per La Parola Ai Giurati (Twelve Angry Men, Sidney Lumet, 1957). Rielaborava la partitura teatrale del 1954 che Rose aveva già portato in tv per la CBS, ma a consegnarla alla storia sono stati il talento eccezionale e la passione civile di un Lumet trentatreenne al suo esordio nella regia e di Henry Fonda, che oltre a interpretare il “giurato n.8” della vicenda era anche produttore del film.
A riguardarla oggi, quella esplorazione dei pregiudizi, delle frustrazioni e del razzismo strisciante (con le deformazioni di sguardo che ne derivano) può ancora offrire spunti di riflessione sulle ultime presidenziali americane. Quel plot ha sedotto, nel tempo, autori come William Friedkin (12 Angry Men, 1997) e Nikita Mikhalkov (12, 2007), e in teatro è tornato in scena a ripetizione, in Italia con Alessandro Gassmann regista e interprete. È difficile credere che a surclassare La parola ai giurati, candidato agli Oscar come miglior film, migliore regia e migliore sceneggiatura originale, sia stato allora Il Ponte sul Fiume Kwai, di cui sopravvive appena la marcetta.
Difficile ma anche no: il film di Lumet non solo militava indirettamente contro la pena di morte, era uno specchio scomodo per la middle class americana bianca del 1957.
I riferimenti
La prima grande emozione che riserva Giurato Numero 2 (Juror No.2) il nuovo film di Clint Eastwood in sala dal 14 novembre con Warner Bros. Pictures, è il dichiarato riferimento a un courtroom drama, o murder trial, comunque vogliate chiamarlo, che in ogni versione è stato una bandiera progressista, e non solo per le insidie del sistema giudiziario e le maggioranze umorali che denuncia.
Il bonus emotivo ulteriore è anche etico e estetico. Il nostro Clint eastwoodizza un impianto narrativo consolidato piegandolo alla domanda chiave di tutto il suo cinema, quando non appare di persona: quali sono le persone perbene?
Più o meno da Gran Torino, cioè da sedici anni, per ogni sua nuova regia si parla di film-testamento. A novantaquattro anni, sforna a sorpresa l’ennesima summa del suo pedigree intellettuale e artistico. Non sorprende che il titolo sia stato scelto in anteprima per l’apertura della ventottesima edizione del Tertio Millennio Film Fest, patrocinato dall’Ente dello Spettacolo del Vaticano.
La religione non conta, come non contava nell’elogio dell’eutanasia di Millon Dollar Baby. La domanda riguarda te, spettatore, e le tue scelte morali: cosa faresti al posto del Giurato Numero 2, cittadino perbene, responsabile di una famiglia perbene, chiamato a decidere su una colpa che è tua?
I flashback
La suspence del film di Lumet nasceva da una battaglia: undici dei dodici giurati avrebbero liquidato il verdetto in un batter d’occhio, certi della colpevolezza del ragazzo di colore accusato di aver massacrato suo padre. Solo il giurato numero 8 lavorava sul dubbio, sulle ragioni personali che spingevano i suoi colleghi alla condanna.
Clint Eastwood regista, pochi incassi in America ma da dissennati, lavora su un binario più estremo. Il rispettabile cittadino esemplare giurato numero due (Nicholas Hoult), giurato controvoglia perché ha cose più urgenti e private di cui occuparsi – tipo la gravidanza a rischio di sua moglie che ha tragicamente perso i due primi gemelli – non riesce a sottrarsi al suo compito nel processo a James Sythe (Gabriel Basso), accusato di aver ucciso la sua fidanzata Kendall Carter (Francesca Eastwwood).
A colpi di flashback, Eastwood fa scoprire in contemporanea a noi a e al giurato che non di omicidio si tratta ma di un pirata della strada, e che il colpevole è proprio lui, Justin Kemp, alcolista redento e puntuale frequentatore di un’associazione di Alcolisti Anonimi con tanto di sponsor (Kiefer Southerland). In quella notte di pioggia del 25 ottobre pensava di aver investito un cervo, ma la vittima era un essere umano. «Con i tuoi precedenti non crederanno mai che eri sobrio», gli dice lo sponsor, che è anche avvocato.
Siamo nella stessa Georgia evocata da Clint Eastwood in Mezzanotte nel Giardino del Bene e del Male (1997) ma c’è l’aggravante che il pubblico ministero Faith Killebrew (Toni Collette, e Faith sta non a caso per Fede) sta sfruttando il processo per una campagna elettorale a procuratore distrettuale focalizzata sulle violenze domestiche. Trionfare in questo caso la farà eleggere senza incertezze. Il guastatore di turno è J.K. Simmons, il giurato fioraio, ex detective, che indaga illegalmente sulle auto che hanno richiesto interventi di carrozzeria in quel periodo.
Justin si è conquistato uno status da cittadino esemplare. Toni Collette ha trionfato alle elezioni. Il giurato n.13, subentrato all’espulsione di J.K. Simmons, come si orienterà , secondo coscienza? È più influenzabile dai true crime delle piattaforme, quelli per cui nella maggioranza dei casi il colpevole è un familiare, ma proprio per questo è il più scontato? E come si orienterebbe ognuno di noi sapendo che la sua vita è più socialmente utile di quella di un imputato per sospette, ma non comprovate, violenze domestiche?
Le reazioni tiepide negli USA
Il film di Clint Eastwood, con la sua claustrofobia e la sua irresistibile suspence ereditata da un classico, con il suo flop al box office Usa (ma non europeo, chissenefrega), è un’esortazione all’autocoscienza. Mi chiedo perché la critica Usa ne abbia parlato così poco.
Forse, chissà, per la vecchia allergia nei confronti dell’originale: «Qualche volta la verità non è giustizia», commenta per auto-assolversi il giurato-peccatore in un face-to-face con il pubblico ministero Tony Collette appena eletta, anche grazie al suo silenzio, procuratore distrettuale. E onestamente il debito di coscienza, tradotto in azione, del neo-procuratore è l’elemento meno verosimile del film, anche se chiude il finale.
Ma Clint Eastwood ha inspiegabilmente disertato, in patria, il red carpet per la proiezione di gala dell’American Film Institute. Era una protesta contro la Warner, con cui Eastwood lavora da mezzo secolo, ma che ha fatto uscire il film in sole 50 sale negli Usa?
Eppure ha corso il rischio di finire inghiottito da streaming. Solo la prospettiva degli Oscar forse lo ha emancipato dal buio delle piattaforme. Gli fareste il dispetto di perderlo?
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