Dal 4 aprile sarà esposta a Venezia l’opera “La vecchia” di Giorgione. Una notizia che fornisce lo spunto a Maria Luisa Frisa per confrontarsi con quest’opera a cui si sente stretta in un «profondo legame affettivo»
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Aprirà a Venezia il 4 aprile alle Gallerie dell’Accademia la mostra Corpi moderni. La costruzione del corpo nella Venezia del Rinascimento. Leonardo, Michelangelo, Dürer, Giorgione, a cura di Giulio Manieri Elia, Guido Beltramini, Francesca Borgo. Parlando con i curatori ho saputo che una delle opere in mostra sarà La vecchia di Giorgione, dipinto custodito nelle Gallerie dell’Accademia stesse e cui in questi mesi anche la mostra di Guido Guidi al MAXXI di Roma, “Col tempo, 1956-2024”, fa riferimento. È un dipinto a me prossimo per tante ragioni, inserito dalla mostra di Venezia in un discorso che mi offre finalmente l’occasione di scriverne.
«Adesso mi piacciono tutti. Forse perché sto diventando vecchia e il tempo diminuisce. Ho grande pietà e rispetto dei corpi. Di qualunque forma siano, per quanta strada abbiano fatto. Se sono consumati, se sono vispi e allegri, tutti i corpi, compreso il mio, mi ispirano una grande tenerezza».
Elena Stancanelli, La femmina nuda (La nave di Teseo, 2016).
Mi specchio oggi, come sono adesso, alla mia età di settantuno anni (sono nata il 19 novembre del 1953), nella Vecchia di Giorgione. Vecchia che, quando fu ritratta, probabilmente aveva meno degli anni che ho io mentre scrivo osservando un dipinto che è parte della mia memoria visiva e con cui posso dire di avere un legame affettivo.
Un fondo scuro ritaglia una figura femminile ritratta nella verità della decadenza del corpo. Incurvata, il volto segnato dalle rughe, una cuffia che trattiene pochi capelli grigi, la bocca sottile semiaperta, i denti, quelli rimasti, consumati dal tempo. Poi, invece, a contrastare l’oscurità del fondo, il rosa dell’abito unito al bianco della cuffia e del panno sulla spalla. Ho pensato spesso che quel colore grazioso dimostri una sorta di affective touch dell’artista. È un dipinto che conosco, non solo perché molti anni fa ho studiato storia dell’arte, ma anche perché, quando ero ancora in età precritica, me lo aveva indicato mio nonno in una delle visite alle Gallerie dell’Accademia.
Poi, dopo la sua morte, nello studio, tra una moltitudine di carte e oggetti vari, ho trovato un pacco di fotografie con la stessa immagine riprodotta. Un particolare del dipinto di Giorgione: la mano e il cartiglio con il motto «Col tempo». La riproduzione era in quella grana del bianco e nero delle cartoline di una volta, quelle che avevano stampato sul retro «Vera Fotografia». Purtroppo, penso di non averne più nemmeno una. Tra quelle usate e quelle disperse nel disordine dei traslochi.
Riaffronto, scruto con altri pensieri questo dipinto, sorta di vanitas, di memento mori, che era conservato – così si deduce dall’inventario Vendramin del 1601 – coperto da un ritratto virile. Nel sito delle Gallerie dell’Accademia la scheda dell’opera ne descrive il soggetto come «un’anziana signora», definizione che, nel desiderio di essere garbata, mi pare svilisca la forza e la verità dell’opera. Ora il dipinto è inserito nella mostra Corpi moderni, nella sezione “Il corpo costruito: rappresentarsi”. Il corpo rinascimentale ha piena consapevolezza del valore dell’immagine. L’uomo è il centro, la misura delle cose. Il corpo non può essere disubbidiente, deve essere disciplinato dalla postura, dai gesti, dalla cultura, dai vestiti. E dagli strumenti, siano essi quelli semplici della toletta, o quelli che lo costringono, lo plasmano – in mostra si potrà vedere un busto dalle volute metalliche – oppure cercano di integrarlo delle parti mancanti. Braccia, mani, nasi nello stesso metallo di quelle corazze capaci di trasformare ogni corpo in scultura.
Apparentemente naturale, il corpo moderno, nella morbida sensualità femminile oppure nell’autorevole postura maschile, è reimpostato dalle forme della cultura dell’epoca. Trattati, strumenti, ritratti si dispongono in una sorta di repertorio di possibilità per agire in molti modi differenti, compresa la chirurgia. Il corpo obbedisce a un’idea di bellezza che, come sempre, risponde al gusto, alla sensibilità del tempo in cui è immerso.
Però il corpo, come scrive lo psicanalista Hans Loewald, è la sua vita stessa. A quel corpo rinascimentale che si offre trionfante al nostro sguardo si affianca la Vecchia. “Col tempo” ogni cosa è destinata a corrompersi. Le attrici, ma non solo, ripetono spesso che quando una donna supera una certa età diventa invisibile. Come se la pelle nel suo farsi involucro rugoso si trasformasse suo malgrado in un mantello dell’invisibilità, come quello di Harry Potter. Come se essere vecchi volesse dire diventare trasparenti.
Roland Barthes in Il corpo, ancora, trascrizione di un’intervista televisiva realizzata da Teri Wehn Damisch nel 1978 (testo edito in italiano in Il senso della moda, raccolta di scritti di Barthes curata da Gianfranco Marrone per Einaudi nel 2006), a una domanda sul corpo giovane e il corpo vecchio risponde: «È difficile cogliere i caratteri tipici del corpo moderno, ma c’è – credo – un carattere costante inscritto in un’opposizione che è un vero e proprio mito moderno. Si tratta, appunto, dell’opposizione tra il corpo giovane e il corpo vecchio. Sembra che la nostra società tolleri solo corpi giovani. Ogni volta che la tecnica culturale – se così posso dire – s’impadronisce del corpo, si tratti della pubblicità, del cinema o della fotografia, quel che viene promesso è sempre un corpo giovane, come si trattasse di vedere l’uomo solo sotto le spoglie di un essere immortale».
Nella lunga vicenda di modernità che, pur tra moltissime variazioni, va dal Rinascimento trattato dalla mostra veneziana a oggi, al corpo mortale, al corpo vecchio rimane solo lo spazio della meditazione privata, solitaria, marginale, come quella cui era destinato il dipinto di Giorgione.
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