Il suo penultimo romanzo avrebbe potuto chiamarsi Harry Potter alla scuola di traduttologia. Pubblicato nel 2022, Babel (Oscar Mondadori) – questo il vero titolo – ha vinto vari premi per la letteratura fantasy, facendo di Rebecca F. Kuang una delle più celebri autrici mondiali. Babel fa pensare alla saga di J. K. Rowling perché è la storia di un giovane aspirante mago; ma invece di andare a Hogwarts lui viene mandato ad Oxford, dove scopre che nello scarto di intraducibilità tra lingue diverse c'è il segreto per dominare il mondo. In pratica è la versione romanzata di Dopo Babele di George Steiner (Garzanti), ponderoso saggio degli anni Settanta ancora insegnato nelle università americane.

Malgrado l'argomento piuttosto alto, questo Harry Potter apocrifo non è ospitato sugli scaffali della narrativa in mezzo a Kafka e Kundera, bensì nell’enfer dello Young Adult, tra vampiri innamorati e segretarie che amano la frusta. Se parli di Babel a un critico letterario italiano – mica a una booktoker – c'è la possibilità che non ne abbia mai sentito parlare, o che trovi particolarmente kitsch la trama. E questo è un peccato perché, mentre la letteratura alta prosegue la sua opera di dissezione della lingua, gli artigiani del genere elaborano metafore per capire il mondo.

Il ritorno di R. F. Kuang

Sarà per questo che Kuang, dopo il successo di Babel, ha deciso di cambiare campo da gioco, anzi campionato o persino sport. Almeno in apparenza. Con il nuovo romanzo Yellowface (Oscar Mondadori) eccola finalmente approdata agli scaffali della narrativa generale, da qualche parte tra Chimamanda Ngozi Adichie e Sally Rooney.

Addio alle ambientazioni fantasy: questa volta siamo nell’America di oggi e le protagoniste sono delle giovani scrittrici. Una è Athena Liu – brillante autrice sino-americana, alter ego di Kuang – e muore alla prima riga del romanzo. Il resto del libro è una guerra sulla sua eredità, tra contratti di pubblicazione milionari, sensitivity reader, shitstorm e cancellazioni. Attraverso lo sguardo di una narratrice viscida e assai poco attendibile di nome (d’arte) Juniper Song, Yellowface descrive gli effetti stranianti del successo letterario, con la sua coda d’ipocrisie e d'invidie, poi l'inevitabile caduta.

Il fatto che Yellowface sia l'ennesima satira del mondo editoriale e dei social media potrebbe lecitamente raffreddare la curiosità. Se non fosse che Kuang descrive quel mondo per dire qualcosa di più profondo sul rapporto tra cultura dominante e culture dominate. L'editoria e i social sono parte di un più ampio meccanismo che estrae valore dalla diversità, creando riserve, appioppando etichette e falsificando ogni esperienza. Le isterie woke sono l'altro lato della medaglia dell’imperialismo culturale, nel mezzo di una guerra di tutti contro tutti per il riconoscimento.

Kuang ha scritto il grande romanzo dell’appropriazione culturale, ovvero quel che fanno i progressisti occidentali quando, con il pretesto di dar voce alle minoranze e l'intenzione di trarne una rendita economica o reputazionale, alterano o falsificano quella voce, ne limano le asperità, fondamentalmente annientano l'altro. Tutto si appiattisce sulla sola dimensione dell’identico e così senza nemmeno accorgercene ci troviamo sullo scaffale della filosofia, tra Heidegger e Marcuse.

Da Babel a Yellowface

Secondo Stephen King, Yellowface è anche un giallo; il che è ironico per un libro che, fin dal titolo, allude al colore che un tempo veniva convenzionalmente attribuito alla pelle degli asiatici. Questa ironia la può cogliere solo il lettore italiano, perché in inglese “giallo” si dice “crime”. In effetti ogni lingua ha i suoi doppi sensi intraducibili: Kuang lo aveva spiegato bene in Babel, che racconta la rivolta di una casta di traduttori al servizio dell'impero. In questa fantasiosa rilettura dell’Ottocento inglese, al protagonista Robin Swift basta incidere sull'argento una coppia di equivalenze (proprio come “crime” e “giallo”) per fare una magia che sarà tanto più potente quanto i significati divergono.

La metafora ha il merito di essere molto chiara, quasi didascalica: nel mondo di Babel, e forse anche nel nostro, la forza dell'impero sta nella capacità di tenere assieme l’irriducibile diversità delle culture che lo compongono. Perciò l'ordine mondiale – con i suoi portati e le sue ingiustizie – dipende da una casta di mediatori tra il centro e le periferie, figli dell'unione tra il centro e le periferie. Dei principi mezzosangue: l'ho detto che c'entrava Harry Potter.

La linguistica, in effetti, nasce come ancella dell'imperialismo. Quello di Babel è un meccanismo di fulgida perfezione idraulica. Il centro ha bisogno delle periferie per attingere alle risorse e ai talenti. Le periferie hanno bisogno del centro perché lì è accumulato il capitale, sia economico che culturale. Muovendo dalla periferia per servire il centro, i mediatori sperano di conquistare il benessere; ma così facendo diventano complici dell'oppressione. Qualcuno ne prende coscienza e impugna contro l'impero le sue stesse armi. Come Gandhi e Ho Chi Minh, la storia della decolonizzazione insegna.

Letti separatamente, i due ultimi romanzi di Kuang sono buoni ma forse un po' medi: hanno il groove monocorde delle scuole americane di scrittura creativa. Tutto cambia se vengono letti in parallelo: Babel e Yellowface appaiono come un unico terribile affresco sul mondo post-coloniale. In effetti al centro di ogni trama l'autrice mette dei personaggi bilingue come lei: sia Robin Swift che Athena Liu appartengono a una nuova élite transnazionale prodotta dalla globalizzazione. Questa stirpe ibrida, educata nelle migliori università anglosassoni, costituisce per Kuang una sorta di umanità aumentata che viene vampirizzata dall'imperialismo occidentale. I suoi romanzi raccontano della rabbia e del risentimento che si accumula, poi della violenza cieca che si scatena quando tutto esplode e Babele inizia a crollare.

We call It Master and Servant

Nella sua Fenomenologia dello Spirito, all'alba della rivoluzione industriale, Hegel dedicava alcune pagine immortali alla dialettica tra il servo e il padrone, nucleo essenziale di quella che sarà poi in Marx la lotta di classe. Hegel descrive il rapporto tra il soggetto che lavora e quello che invece, senza lavorare, gode dei frutti del lavoro. Il rapporto è paradossale perché il padrone, pur detenendo il dominio, diventa dipendente dal servo per la propria esistenza e soddisfazione. Il servo, attraverso il lavoro, sviluppa competenze, consapevolezza di sé e una relazione diretta con la realtà, mentre il padrone resta estraneo a tale esperienza.

Questo vale anche sul piano della divisione internazionale del lavoro, che ha progressivamente trasformato la classe media occidentale in consumatrice passiva, alienata nello spettacolo della propria potenza. I romanzi di Kuang rivisitano in modo originale questa dialettica, concentrandosi sull’élite dei servi: tecnici, intellettuali e artisti che hanno acquisito le conoscenze necessarie a mantenere e far prosperare l'ordine occidentale, ma sono anche i più consapevoli delle sue ingiustizie e debolezze. Il servo sarà anche in catene, ma la sua coscienza è libera, mentre il padrone è prigioniero della sua dipendenza dal servo. In Yellowface, il padrone può appropriarsi del lavoro del servo, ma comunque non otterrà mai il riconoscimento per cui lotta.

Quella che Kuang ha messo per iscritto è una profezia sul destino dell’Occidente. La dipendenza dell’impero dal lavoro, dalle risorse e dalle menti provenienti da fuori è anche la sua vulnerabilità: quando coloro che tengono in piedi la struttura decideranno di non collaborare più, quando la nuova élite dei servi finirà per ribellarsi contro gli antichi padroni, l'impero crollerà su se stesso. Come aveva capito Hegel, ogni sistema porta in sé le contraddizioni che, col tempo, lo faranno collassare. Incredibile quello che si trova sullo scaffale Young Adult delle librerie.

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