Nel film d’animazione del 1989 All dogs go to heaven, tradotto in italiano con il meno perentorio Charlie - Anche i cani vanno in paradiso, il protagonista, un pastore tedesco, scopre che tutti i cani hanno diritto a un posto nel regno dei cieli, «perché, a differenza degli esseri umani, sono buoni, leali e gentili» spiega la levriera che lo accoglie ai cancelli celestiali.

Il cartone firmato dall’angelo caduto della Disney, Don Bluth, ha convinto me e a tanti altri bambini che agli animali domestici spetta un solo destino, quello della salvezza eterna. Diversi anni dopo, ho scoperto che quando un gatto passa a miglior vita non muore ma «attraversa il ponte». Un ponte con le sembianze di un arcobaleno che, senza eccezione alcuna, lo porta dritto in paradiso, proprio come nella storia di Charlie. Questa volta però, non è stato un VHS a fornirmi i dettagli sulla scomparsa dei nostri amici a quattro zampe: l’ho scoperto su un gruppo chiuso di Facebook.

Boomerbook

Nell’inverno del 2004, cinque studenti brillanti di Harvard creano un sito che funziona più o meno come quegli annuari che vediamo nei teen-movie americani, un catalogo di facce, nomi e identità che si susseguono per formare l’infinita stratificazione di persone che passano da un liceo o da una università. A raccontarci cosa è successo dopo che The Facebook diventasse uno dei siti più trafficati di sempre ci ha pensato David Fincher nel 2010 con The Social Network, e dai dormitori della Ivy League a Mark Zuckerberg che viene accusato di aver influito sui risultati delle elezioni americane del 2020 è un attimo. C’è chi paragona il padre di tutti i social network alle sigarette, un passatempo con diversi effetti collaterali e di cui, una volta entrato in contatto, non potrai più fare a meno.

A vent’anni dalla sua nascita, tra critiche, dipendenze e contrabbando di dati, non so se è lecito dire che Facebook abbia cambiato il mondo, ma di certo ha cambiato il modo in cui noi ci stiamo, utenti con nomi e cognomi, foto profilo e love reaction. Quando ho effettuato l’iscrizione, nel 2009, avevo sedici anni, un passato recente su MySpace e molta voglia di condividere i miei pensieri in forma di flusso di coscienza, alternati a risultati di test per scoprire quale personaggio di Harry Potter mi avrebbe accompagnata al Ballo del Ceppo. In quella cornice, preistoria dello smartphone, Facebook si è imposto come aggregatore universale di conoscenze accumulate e mai smaltite: ho ancora tra gli amici persone incontrate durante la vacanza studio con l’Inpdap in Inghilterra, compagni di scuola con cui non ho mai parlato, vicini di casa che si sono trasferiti, e qualsiasi altra forma umana con cui mi sono imbattuta nel corso della vita e con cui ci fu il tipico scambio, «Dai, dimmi come ti chiami che ti aggiungo su Facebook».

E poi cos’è successo? È successo che Facebook è diventato Boomerbook, ossia un social su cui, a detta di GenZ e millennial nei sondaggi di Meta, gli adulti passano il tempo a litigare su temi politici e a condividere album delle loro vacanze – come se su Instagram non succedesse la stessa cosa, specialmente da quando i caroselli consentono di pubblicare addirittura venti foto. Se devo ricostruire il momento in cui ho cominciato a sentire una forma di distacco dalla piattaforma su cui avevo formato digitalmente la mia adolescenza, potrei risalire ai tempi del Covid, quando l’algoritmo mi teneva prigioniera tra un thread no vax e una disputa sul GreenPass.

Troppe parole, troppe persone, troppi nomi e cognomi, troppe foto profilo, troppa libertà: Facebook non era più il posto dove potevo spiare le evoluzioni esistenziali dei miei vecchi compagni di scuola ma una polveriera di frustrazione. «Go back to the blue social», dicono gli zoomer sprezzanti quando sentono che le loro piattaforme vengono profanate da chi non sa la differenza tra un reel e un trend su TikTok, e per quanto assurdo possa essere credere che esista questo tipo di confine da difendere su internet, c’è un principio di sensatezza nell’idea che ogni social abbia la sua grammatica e le sue regole di comportamento diverse, e non solo.

Iperspecificità

Tornando su Facebook dopo una lunga pausa, mi sono accorta che il social blu aveva qualcosa di nuovo da offrirmi rispetto a tutti gli altri suoi cugini. Non erano più solo dibattiti estenuanti sui conflitti mondiali o insulti a colpi di text wall tra adulti fin troppo estroversi. Gradualmente, ho smesso di interagire con la mia cerchia di contatti e mi sono addentrata nel tunnel dei gruppi chiusi, comunità digitali iper-specifiche che fungono da isole nel villaggio globale che è Meta. C’è un gruppo che si chiama «Arredare case piccole» dove gli utenti condividono le foto delle loro dimore striminzite, teneramente presentate con tutto l’entusiasmo della necessità che si fa virtù. In gergo, questo tipo di contenuto si chiama wholesome, sano, autentico, un po’ naif, lontano dalla rabbia e dalla polarizzazione del dibattito tossico a cui siamo sottoposti giornalmente nelle nostre case piccole, anzi microscopiche, ossia le camere d’eco dentro cui sguazziamo. C’è un gruppo per gli amanti dei gatti calico, un gruppo per i fan del Tenente Colombo, un gruppo per chi vuole barattare vecchi VHS; in sostanza, su Facebook, c’è un gruppo per tutto. Ma in particolare, su Facebook, ci sono tantissimi gruppi che parlano di morte.

Che Facebook somigli a un cimitero, con le sue lapidi bianche e le sue bacheche piene di condoglianze, ce ne siamo accorti da un po’, forse proprio da quando gli utenti hanno cominciato a morire e dei loro profili non si sa bene cosa farsene. Alcuni continuano imperterriti a interagire, come se quello spazio fosse un punto di contatto tra il vivo e il morto, un muro su cui lasciare un orsacchiotto o un fiore, come i cancelli di Buckingham Palace all’indomani della morte di Lady D., altri si astengono dal contatto digitale-ultraterreno, forse per paura della forma da seduta spiritica che assume il dialogo o più probabilmente per pudore.

Il presupposto su cui si fondano le piattaforme, ossia assecondare il desiderio di lasciare una traccia costante di noi stessi, come per afferrare ogni istante di tempo che fugge, più che su qualsiasi altro social trova in Facebook il suo perfetto alleato. Non solo per la sua conformazione così anagraficamente accurata: più di Instagram, Twitter o TikTok, è su Facebook che si rendono note le informazioni personali a mo’ di schedario, e quale miglior archivio di un sepolcro. Attraverso i gruppi chiusi, luoghi in cui ci si riunisce per affinità elettiva, è possibile celebrare un rito funebre collettivo e quotidiano, sia per i morti che per i vivi.

Esorcizzare la morte

Animali che attraversano il ponte, cimiteri dimenticati, case infestate da fantasmi, luoghi abbandonati e spettrali, tombe di personaggi famosi, gruppi di elaborazione del lutto, il nuovo gotico digitale si nutre di un racconto corale in cui ciascuno può dare il suo contributo con una foto, un ricordo o un aneddoto. La morte si esorcizza rendendola pubblica, anche se formalmente privata, ripescando un’abitudine catartica tribale che nel presente è sempre più tabù.

E la morte si esorcizza anche con la consapevolezza della propria caducità: esistono gruppi con centinaia di migliaia di iscritti dove, ogni giorno, vengono postate decine di foto vecchie, perlopiù di persone defunte o non più nel fiore dei loro anni, per così dire. «Come eravamo», «Foto scomparse», «Ricordi in soffitta», «Foto in bianco e nero», con questi titoli si codifica lo spazio in cui il social diventa un luogo domestico allargato, un posto in cui è possibile celebrare non solo persone morte anni prima, raccontate con immagini d’epoca e parole di commiato, ma anche chi è ancora in vita, giocando d’anticipo rispetto al destino che tutti ci accomuna. «Questa sono io nel 1965, avevo quindici anni, ora ne ho settantaquattro» scrive un’utente di «Come eravamo», accanto alla foto d’epoca ce n’è una di lei al presente, modificata con l’intelligenza artificiale per darle un aspetto più giovanile; «Mio padre nell’estate del 1935, un giovanotto. È venuto a mancare sei anni fa ma mi manca ancora tanto», scrive un altro.

Charlie, il protagonista di All dogs go to heaven, viene respinto dal paradiso dei cani perché si impossessa dell’orologio che scandisce la sua esistenza terrena. Riporta indietro le lancette e piega il tempo, piombando di nuovo sulla terra con una condanna addosso: chi non accetta lo scorrere degli anni non merita il regno dei cieli. Charlie, come tutti gli eroi, riscatta il suo peccato dando la sua vita per una bambina, e quando il suo orologio si ferma di nuovo, c’è ancora spazio per lui in paradiso. Tra le funzioni che utilizzo di più su Facebook, da quando ho smesso di utilizzarlo per il presente e ho cominciato ad attraversarlo come una galleria del passato, mio e di sconosciuti, c’è quella dell’«Accadde oggi», un modo per poter rivedere ciò che hai postato negli anni. Come Charlie con le lancette del suo orologio, anche io gioco con quelle del mio. «Si muore un po’ per poter vivere», cantava Caterina Caselli, e su Facebook questo esercizio si può fare tutti i giorni.

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