I muri insanguinati delle nostre camere da letto raccontano di una guerra spietata che, dalla notte dei tempi, combattiamo a colpi di pantofole, cuscini, giornali, e schiaffoni in faccia che ci autoinfliggiamo alla cieca nella speranza di colpire il nemico, invisibile ma udibilissimo. A fare “la gita a Chiasso”, però, si scoprono sempre cose sorprendenti: magari non proprio a Chiasso ma un po’ più in là, diciamo dalle parti del Circolo Polare Artico, in quel territorio chiamato Sápmi, a nord di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia, lì c’è un popolo, i Sámi, per cui il ronzio delle zanzare è musica. Letteralmente: «Quello che noi consideriamo uno dei suoni più fastidiosi in natura, per alcuni di loro è musicale», mi racconta Nicola Renzi, antropologo della musica e dottorando ventisettenne dell’Università di Bologna che, da anni, dedica i suoi studi alla cultura e alla musica di questo popolo. «Per loro è come un concerto, e il prezzo per ascoltare è farsi pungere».

Il suo interesse per i Sámi è iniziato quando aveva sei anni e i suoi genitori lo condussero a conoscere il ghiaccio del profondo nord per visitare la “casa di Babbo Natale”: «Mio padre comprò dei cd di musica Sámi che ascoltammo in auto durante il viaggio. Ne fui così colpito che ho continuato a riascoltarli per anni finché, quando ho iniziato a studiare etnomusicologia, ho deciso che volevo capire cosa stavo ascoltando». Ed è andato a vivere per oltre un anno a quelle latitudini: «Con i miei studi cerco di dimostrare che ciò che noi consideriamo musica, per altri popoli e culture può non esserlo, e viceversa».

La questione politica

È una questione specifica che ne intercetta una più ampia su cui le istituzioni culturali (e politiche) si stanno confrontando negli ultimi anni: la decolonizzazione. E qui tornano di nuovo utili le zanzare, nonostante la domanda che di solito ci facciamo mentre ci grattiamo furiosamente la caviglia gonfia: “A che servono?”. Per avere una risposta, basterebbe chiederlo alle rondini (o a un entomologo) ma il punto è la domanda, che rivela l’abitudine a credere che la natura sia al nostro servizio e che se i Ditteri Nematoceri non servono a noi, allora non servono affatto. La rivoluzione copernicana che la natura ci sta invece suggerendo (a voce sempre più alta) di fare, se vogliamo sopravvivere su questo pianeta, sta proprio nel prendere atto che su questo pianeta non ci siamo solo noi. Se prima abbiamo dovuto dolorosamente accettare di non essere al centro dell’Universo e che il Sole di noi se ne sbatte, altro che girarci attorno adorante, oggi dobbiamo compiere lo sforzo ulteriore di accettare che nemmeno la Terra e la natura ci girano attorno. Come nella “Casa delle libertà” di Corrado Guzzanti, finora abbiamo fatto “un po’ come cazzo ci pare”, andando in giro per il mondo, prendendo quello che volevamo e portandocelo a casa. È arrivato il conto. 

Esempio: molte di quelle belle cose che ci siamo portati a casa sono finite nei nostri musei e i legittimi proprietari ne chiedono da anni la restituzione. La questione riguarda anche gli archivi sonori conservati, oltre che nei musei, nelle facoltà di etnomusicologia, dato che è dall’invenzione del fonografo che gli antropologi vanno in giro a registrare suoni, voci e canti di popoli “esotici”: «Registrazioni», spiega Renzi, «che sono spesso avvenute in modo estrattivo: si catturavano i suoni e si portavano via da quel territorio». In che modo decolonizzare e restituire questo patrimonio sonoro è stato l’argomento del seminario Repatriating/Rematriating sounds: a (digital) challenge for XXI Century Sound Archives, organizzato a Venezia dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Giorgio Cini, durante il quale 32 studiosi da tutto il mondo, tra cui Nicola Renzi, si sono confrontati per capire: da un lato, come riparare i torti commessi. Dall’altro, come evitare di fare ciò che più caratterizza la specie umana: ripetere gli errori. È a quest’ultima questione che Renzi ha risposto, parlando della metodologia con cui lavora, esempio perfetto di un nuovo corso, responsabile, collaborativo e non colonialista, della ricerca scientifica.

Lo joik

Ciò che aveva colpito le orecchie del Renzi seienne nel viaggio a casa di Santa Claus si chiama joik ed è qualcosa che va così oltre la nostra idea di musica che il Renzi ventisettenne mette le mani avanti: «Definire lo joik è forse una delle cose più sbagliate. Sta bene senza definizione». Poi però ci prova: «Ánde Somby, performer di joik e professore di diritto indigeno all’università di Tromsø, dice che lo joik esiste ovunque, nel tempo e nello spazio: le persone vi attingono e gli danno voce o, come dice lui, gli danno ali per volare. È un dialogo interspecie tra esseri umani e non umani, animali e luoghi, del presente e del passato, vicini e lontani. Per i Sámi la musica non è creata dall’uomo bensì esiste in natura, infatti parlano di “catturare” o “prendere uno joik” e anche la più piccola creatura ha il suo joik».

È qui che si rischia lo scontro culturale: «In lingua sámi la parola “jietna” vuol dire sia “suono” che “voce”: per loro ogni cosa ha una voce, anche un fiume o una roccia che quindi hanno una soggettività che noi non siamo in grado di riconoscere. È per questo che riteniamo la natura e i suoi suoni come qualcosa che possiamo sfruttare a nostro piacimento, senza nessuna considerazione etico-metodologica sulla loro registrazione. Dovremmo piuttosto rendere grazie alla natura per quello che ci dà: un famosissimo detto dei Sámi dice “non prendere più di quello di cui hai bisogno”, e per chi come me ha una formazione scientifica, ed è abituato a raccogliere quanti più dati possibile, vuol dire avere un approccio radicalmente diverso, che ti cambia a livello mentale».

Perfino l’ecologia acustica, nata negli anni Settanta con Raymond Murray Schafer, non è stata immune da un approccio colonialista: «Si riteneva che le registrazioni ambientali ideali fossero quelle che escludevano ogni presenza umana, per avere un “suono puramente naturale”, continuando così a perpetrare un ideale per cui la natura è qualcosa di separato dall’uomo». Il fatto è che per “uomo” qui si intende “uomo occidentale” «mentre il mondo è pieno di popolazioni indigene che, al contrario di noi, sanno vivere in perfetta simbiosi con la natura: escluderle dalle registrazioni significava quindi “zittire” quelle popolazioni ed eliminare una presenza in perfetto equilibrio con l’ambiente». E qui, dopo le zanzare, Renzi tira in ballo le motoslitte: «Per Shafer, quello delle motoslitte era il rumore che distrugge il mito del silenzio nordico. Se però si va a chiedere ai Sámi, si scopre che per loro è un suono centrale e perfettamente integrato nella loro attività di pastorizia delle renne, fa parte del loro patrimonio sonoro e li fa star bene». È per tutti questi motivi che il fulcro del lavoro di ricerca di Renzi «è far emergere il punto di vista dei Sámi. O meglio: il punto di ascolto dei Sámi».

Si capisce come, per riuscirci, sia essenziale la collaborazione tra chi studia e chi è studiato: «Bisogna coinvolgere le comunità locali: non posso essere io a raccontare un’ontologia che non è la mia. Non avere un approccio estrattivo fa parte del codice etico del mio dottorato: ogni registrazione è stata prima discussa e valutata insieme ai miei interlocutori Sámi». Il risultato è Muitalusat guldaleami birra, «una sorta di audio-antologia: una raccolta di suoni e paesaggi sonori affiancati dalle voci dei Sámi. Il titolo vuol dire “storie di ascolto”, perché, accanto ai suoni d’ambiente, ci sono anche canti e racconti dei Sámi a cui ho chiesto di rispondere a domande tipo “Come ascolti?”, “Come senti questo suono?”».

Ascoltare l’altro. Comprenderne la cultura. Collaborare. Rinunciare a qualcosa. In sintesi è questa la nuova via: guardare con gli occhi dell’altro, ascoltare con le sue orecchie. E chissà, forse un giorno anche noi diremo “Ieri notte ho ascoltato un delizioso concerto di zanzare”. Se non ci estingueremo prima.

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