Il maggiore rimpianto che spesso si prova rispetto al Novecento riguarda sostanzialmente quella che può essere definita come la perdita del mondo e con esso la presenza delle specificità culturali e con esse la capacità di produrre discorsi e quindi di generare Storia. Un’assenza del mondo denunciata nella bellissima raccolta di saggi La fine della cultura (Rizzoli, 2013) di Eric Hobsbawm, in cui il grande storico inglese del XX secolo denunciava l’impossibilità all’elaborazione culturale su un terreno ormai esausto.

Hobsbawm non confondeva la fine della cultura con la fine della storia, ma anzi preannunciava i rischi e i pericoli di un gioco ormai privo di un vero e proprio campo con regole ben definite d’ingaggio. La realtà che aveva avuto negli intellettuali i riferimenti utili a darle forma e rappresentazione diveniva così un luogo tanto facilmente raggiungibile e ovvio nelle sue forme riconoscibili, quanto sempre più difficile da percepire in profondità. Il mondo scompariva perché scompariva la capacità di dare corpo alle idee. La rappresentazione si riduceva a una forma di apparenza diffusa dentro alla quale, a partire dall’invasione dei social network, si finiva per dare forma di prigione alla parola libertà.

Una mutazione che se da un lato dava ragione all’ironia di Woody Allen: «Ma il sole fa male! Come tutto quello che faceva bene prima: il sole, il latte, la carne, l’università…», dall’altro rendeva impossibile ogni visione futura, il sole dell’avvenire non solo ora invece che radioso appariva al massimo radioattivo, ma non era nemmeno più realmente visibile, assomigliava invece sempre più alla sua rappresentazione che così non puntava più a raccontarlo, ma a sostituirlo.

Un sole posticcio per un futuro posticcio in un obbligato presente che oltre che negare la contemporaneità trasformava ogni elemento culturale passato in una forma di rimpianto permanente. Un’impossibilità al desiderio perché come tutto era già stato detto e visto, tutto era anche facilmente ottenibile, ovviamente in rete, con un click e alla bisogna con un codice PIN, si sa, per tutto il resto c’è…

Contro la scarnificazione

La cultura e i suoi contenuti ormai privi di contenitore sono diventati così fluidi e disponibili all’uso. Un lavoro di montaggio e smontaggio che si regge principalmente sul commercio delle idee e non più sulla loro interpretazione. Anche quando questo uso viene fatto in forma di denuncia culturale attraverso inedite e brillanti giustapposizioni, come sa fare Francesco Vezzoli, uno dei più grandi artisti contemporanei e tra i pochi in grado di navigare in questo mare unto e scivoloso, il risultato è sempre quello di una forma di accettazione dello stato attuale, un movimento continuo che è di per sé tragicamente immutabile.

L’iconografia non è più al servizio dell’umano, ma del suo catalogo mentale, quello che avrebbe dovuto permettere una trasmissione di idee diviene così una sorta di specchio dentro al quale non più vedersi (e comprendersi), ma in cui mutare in cyborg capaci di volta in volta di un nuovo significato apparente. Quella che era una mutazione del corpo ora, come avvenuto con la cultura secondo Eric Hobsbawm, sta divenendo una vera e propria scomparsa, come indica l’ultimo saggio pamphlet di Walter Siti che con C’era una volta il corpo (Feltrinelli) offre una guida ragionata alla fine dei corpi e del desiderio per essi.

Una denuncia sentimentale prima ancora che culturale che va a cogliere l’esaurimento di una società così svuotata e scarnificata che ormai al di là della presenza del digitale e della rete si pone in perenne messa in scena. Un’efficacia data così solo dalla sua potenziale replicabilità.

Corpi riproducibili 

Siti definisce infatti la nostra come l’epoca della riproducibilità tecnica del corpo. Il punto di partenza è quello della ormai sdoganata categoria degli influencer che oltre ad aver privatizzato il discorso pubblico hanno portato la televisione in rete intesa come la sua commercializzazione. E viene subito da pensare che razza di influencer straordinari sarebbero stati Mike Bongiorno e Raffaella Carrà, per non dire di Gianfranco Funari che già aveva intuito una modalità di esposizione del corpo che anticipò pure il più grande influencer italiano: Silvio Berlusconi che del proprio corpo fece un’insegna politica, ma sempre a carattere fortemente commerciale.

Infatti non si tratta più di vendita del corpo in sé e per se, ma della sua capacità di divenire contenitore di oggetti e pensieri all’occasione. Una vera e propria disponibilità alla vuotezza che non è solo necessaria, ma ad oggi è esteticamente fondamentale.

Bisogna in sostanza andare bene un po’ a tutti, ma piacere ad ognuno convintamente. Quello che era il desiderio intimo e privato di ognuno diviene così una semplice idea comune, l’amore imparato a stento e rappresentato al cinema diviene così a portata di mano ogni giorno e più volte al giorno attraverso la messa in scena della propria stessa vita.

La fine del corpo è anche la fine dello spettatore e la conseguente liberazione del pubblico che se un tempo poteva apparire molesto anche solo al primo colpo di tosse in sala, ora è invece protagonista assoluto, ma non della scena, ma solo di un sé stesso in quel momento messo in onda. In questa dinamica diviene così centrale la chirurgia estetica che non si limita più a migliorare all’interno di una forma di cura più o meno necessaria, ma elabora letteralmente, esattamente come un tempo si faceva con le automobili e i motorini, con esiti spesso non meno truzzi.

La chirurgia dunque come forma totalmente assimilabile al trucco, un intervento rapido e ovvio e nulla più: dal fondotinta, al naso in stile Diletta Leotta non c’è più alcuna discontinuità: i dentisti sembrano estetisti, gli estetisti sembrano chirurghi plastici e spesso i chirurghi plastici sembrano shampisti.

L’esito rileva Walter Siti è la costruzione di una comunità o meglio ancora di tribù di simili e uguali spesso totalmente replicabili, ma sempre più estranei a se stessi. Si ricerca nell’altro non una diversità e una possibilità ulteriore del mondo e del corpo, ma un’autenticità e una comunanza che siano in qualche modo di consolazione a una solitudine atroce e abissale che lascia perennemente smarriti e privi di ogni capacità di relazione e anche d’amore.

Tuttavia l’autenticità è difficile non solo da cogliere, ma anche da offrire perché come avverte causticamente al solito Paolo Sorrentino, dopo soli quindici minuti qualunque essere umano si rivela di una noia tanto ovvia quanto insopportabile.

Scomparso, perché infinito 

Quello che si para davanti a noi è dunque l’epoca della simulazione, pratica agevolata dall’intelligenza artificiale ormai in grado di simulare e dare forma così ad ogni nostro più preciso desiderio. Un’epoca non più epocale perché pervasa da una totale incapacità a riconoscerci e a riconoscere quello che si prova, quello che va fatto e chi e come dovremmo amare.

Figli della generazione che fu come disse Italo Calvino più teorica che pratica, ma soprattutto incapace – a differenza della sua – di una sostanziale operatività e di un desiderio del fare che agisce sulle cose e sulla storia, ci ritroviamo senza più la possibilità di una fisicità organica e naturalmente riconoscibile. Non si tratta di rimpiangere magari una forma di anzianità vissuta ai margini della società, un’anzianità acciaccata e piegata facilmente dai primi malanni.

E ancor meno non è il caso di pensare un movimento per un ipotetico ritorno al corpo naturale: un corpo a chilometro zero, ma di rilevare che la perdita di consapevolezza di sé e dell’altro e anche della propria età da forma, sotto la retorica della fluidità sempre possibile, a una vera e propria guerra per bande dove il potere si espande sfidando non più il ridicolo dei cinquantenni vestiti come trapper, ma la visione di un futuro che si vuole totalmente presentificato.

Una modifica continua, un adeguamento ossessivo che ha come unico obiettivo il mantenimento assoluto dello status quo e di un ordine sociale inviolabile. Un corpo scomparso perché infinito, anche oltre la morte. 


C’era una volta il corpo (Feltrinelli 2024, pp. 160, euro 17) è un libro di Walter Siti 

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