Walter Siti si interroga sul rapporto tra corpo umano e artificialità. Quando le (o i) giovani influencer negano di star commercializzando il loro corpo, hanno ragione. Quello non è il loro corpo, ma il risultato di una complessa contrattazione tra cultura, biologia e innovazione tecnologica. Il corpo diventato estensione controllata e ipertecnologica, il corpo frutto di intelligenze artificiali, il corpo che si sottrae all’esistenza
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Il corpo è il corpo, mai tautologia fu più ovvia. Tutti sappiamo cos’è, ce lo portiamo dietro da prima di nascere; o è lui che porta in giro noi, la nostra coscienza? Se è un contenitore, che cosa contiene? L’autocoscienza, appunto, o l’anima, o la psiche, o la mente? E se l’anima invece circondasse il corpo come un alone, e il corpo fosse una specie di nocciolo duro? Il corpo ha un limite esterno, o è l’ambiente a definire il corpo, e che rapporto c’è tra il corpo e la persona? Molte azioni riescono più precise se la mente non se ne impiccia e lascia fare agli automatismi del corpo.
Più ci pensiamo, più la nozione ci sfugge, è lui che pensa noi? Insomma, chi comanda qui? A prima vista io sono la persona meno adatta a parlare di corpo, o di corpi. I corpi di più della metà del genere umano (quelli delle donne, se questa parola ha ancora il senso che aveva anni fa) mi sono indifferenti; nell’ambiente di lavoro è diventato proverbiale il mio confondere una collaboratrice con l’altra, non ricordare mai né i loro visi né il colore dei capelli. Per me sono tutte fatte a donna, un po’ come si diceva, ai tempi dell’innocenza, che i cinesi erano tutti fatti a cinese. Ma anche ai corpi dei maschi faccio poca attenzione se li trovo sessualmente insignificanti; il che accade almeno nel novanta per cento dei casi.
Mi onorerei di poter dire che sono molto selettivo, o che lo sono diventato nel corso degli anni; la verità probabilmente è che i corpi quotidiani li ho rimossi. Prendere atto dei corpi che ci circondano, o che camminano per strada, vorrebbe dire annoverarsi di buon grado nel gregge degli umani – accettare le miserie dell’esistenza materiale. Forse addirittura il mio desiderio si è così specializzato sul dato fisico (sulla corporeità erculea dell’individuo desiderato) per consentirmi di trasvalutarlo e di negare la corporeità stessa.
Quando vedo una linea di gambe, o spalle o glutei, che non cade secondo il mio desiderio, la prendo come un’offesa all’ordine superiore delle cose: ogni mania ha il suo lato fanatico. Mi sono addestrato a iper-guardare i pochissimi per non vedere tutti gli altri. Corpus a non corporeando, il corpo sublime utilizzato come specchio ustorio.
L’infanzia è una gigantesca impresa conoscitiva: se penso a quante cose ho dovuto imparare da zero a due anni, mi vengono i brividi. È la grande avventura della mente, altro che bestioline; partiamo in svantaggio rispetto a molti mammiferi e li superiamo tutti in pochi mesi. Io sono venuto fuori con un piede storto, rifiutavo il latte materno, per il mio corpo non dev’essere stato un bel periodo. Ricordo il lettino addossato a un tramezzo, la camera di nonna, la stufa in cucina – il primo “corpo” di cui ho memoria è il mio carapace, o forse la mia tana. Cunicoli, scale, soffitti, la casa come corpo rassicurante; la mente come arma e il corpo come rifugio. Del mio corpo ho preso coscienza, come credo tutti i bambini, quando da lui ho cominciato a prendere piacere (al piacere dell’allattamento avendo rinunciato, come ho detto); a tre anni ho capito che stando disteso a pancia sotto, con la gamba destra piegata in un certo modo, ottenevo uno sfregamento sulle coperte che mi faceva dimenticare il resto del mondo. Mamma mi rimproverava se mi sorprendeva in quella posizione (“non fare sgugnìn!”); poi ci fu la spalliera del letto, più tardi il basso cancelletto che divideva le camere dal solaio: oggetti duri su cui lo sfregamento dava più soddisfazione. Più tardi ancora, di anni ne avrò avuti quasi cinque, le ginocchia rotonde e nude di mio cugino Danilo – su cui però non ci si poteva sfregare, era lecito solo toccarle. Della mia passione per le sfere ho parlato anche troppe volte, proiezione solidificata e affascinante di una convessità (o concavità?) numinosa e indicibile. (Perfino ora, nel tempo della decrepitezza, posso bere soltanto latte molto freddo perché già a temperatura ambiente mi provoca il vomito, ricordandomi un alimento che mi sgomentava sputandolo.) A dieci anni, ormai maturo, mi meritai la fortuna di stringere i pettorali muscolosi di Sergio, fingendo una paura ridicola mentre li assaporavo seduto sul sellino posteriore della sua moto.
Fu col mio corpo precocemente sessuato che mi dedicai all’esplorazione dell’ambiente circostante: i misteriosi involti che passavano sull’acqua del canale dietro casa, bianchi o gialli con strisce rosse, che portati faticosamente a riva si rivelavano quasi sempre sacchi o cartoni del mulino De Cecco, il mulino che da poco più su della curva aveva (Mulini Nuovi); quegli involti misteriosi furono i miei primi tesori. Crescendo, da raccoglitore divenni artigiano: dal fango del canale asportavo secchiate di terra appiccicosa, la incavavo in ciotole che poi (sputandoci dentro, il rito era essenziale) lasciavo cadere rovesciate dal finestrone del solaio e scoppiavano al suolo col rumore di mortaretti. Il mio corpo era diventato il bastoncino a Y dei rabdomanti: i suoi percorsi in campagna e oltre la cortina verde del sorgo mi portarono come naturale esito alla mia prima e benedetta sodomizzazione ricevuta a tredici anni. I corpi dei due sverginatori erano di quelli rozzamente enfatici a cui sarei poi sempre rimasto fedele, come ai nudi sotto la doccia spiati in lavanderia (quelli sì scelti con cura discriminatoria, della mia intrusione si doveva essere degni). Gli altri individui, maschi o femmine che fossero, giovani o vecchi, già scomparivano nel grigio magma delle “persone comuni” che il corpo avrebbero anche potuto non avercelo.
Il mezzo privilegiato per le esplorazioni era la bicicletta – in bici potevo allontanarmi di sera, arrivare fino alla periferia della città dov’erano i campetti per il calcio in notturna; scapoli contro sposati, salumieri contro geometri, campionati di seconda e terza divisione. Dilettanti non sempre detentori di corpi egregi, ma bastava la luce calda degli spogliatoi e l’irraggiamento di alcuni più dotati di muscoli per fare di quello stanzone umido un sacrario di preghiera. Quei corpi, in quella luce, trascendevano se stessi e la percezione che di essi avevano i loro proprietari: diventavano emanazioni dell’Assoluto, testimonianza di qualcosa che andava ben oltre il banale esistere quotidiano.
Il mio modo di desiderarli mi assicurava che non c’è niente di ovvio nel corpo umano – i corpi che per me non esistevano probabilmente rappresentavano l’Assoluto per altri, e guai a chi invece non sa intravedere l’Assoluto in nessun luogo, condannato a vivere da servo. La certezza che il corpo sia un’esca per il divino, mediata dal desiderio, mi possedeva e sarebbe stata per sempre la mia ossessione; anzi, era diventata per me una questione di vita o di morte.
Ma era anche una via elitaria, stupidamente aristocratica, per rapportarmi al corpo come entità biologica. Dove regna il sacro non può non spuntare la tentazione di dissacrare: passando dal voyeurismo all’esibizionismo, mostravo le mie parti intime facendole uscire dai calzoncini corti mentre pedalavo sulla complice bici – non a chiunque le mostravo, mai alle donne (se questa parola, eccetera): solo ai maschi la cui reazione irosa o sprezzante (di rado compassionevolmente paterna) potevo trasfigurare nel mio nevrotico romanzo di formazione come se fosse turbamento sessuale o addirittura fantasmatico assenso.
Mi stavo abituando all’inganno e all’autoinganno, confondevo profondità e bugia; con la scusa di un bisogno di Altrove mal digerito, condannavo all’insignificanza (per me) la maggior parte dei corpi che mi circondavano, e i pochi “salvati” li scardinavo dall’evoluzione collettiva della specie che li avrebbe portati a invecchiare e a decadere. La mia spiritualità assumeva la forma demente del collezionismo.
Ora che il mio corpo è in disfacimento (e tanti corpi desiderati ho visto perdersi o morire), il mio errore mi appare flagrante: a un certo punto, a un bivio di cui non mi sono accorto, ho imboccato la strada sbagliata – ho dimenticato che i corpi di tutti gli animali (noi compresi) sono fatti per relazionarsi tra loro, per congiungersi e moltiplicarsi, per annusarsi e lottare. I miei corpi desiderati, invece, sono diventati sempre più immaginari, sempre più iperbolici e stereotipi – sempre più statici in realtà, sterili e senza sbocchi.
Irreali, in definitiva. Contemporaneamente i corpi comuni, quelli difettivi e sottoposti agli incidenti della materia, li ho ridotti a un problema statistico, a pure funzioni; come se fosse colpa loro se la realtà si ostina a non evaporare e meritassero per questo di essere puniti con la cancellazione. In un delirio di egotismo, ho inteso i corpi non gnostici come una razza inferiore: chi sono io, se gli altri esistono?
Forse allora non sono il meno adatto a parlare di corpo; le mie stesse anomalie psichiche me lo hanno fatto percepire in una dimensione straniata e non naturale – come se alcuni corpi fossero stati posti sotto un riflettore, o visti attraverso un filtro idealizzante, mentre su tutti gli altri si depositava la forfora dell’inesistenza o (per quanto riguarda il corpo delle donne) la galaverna gelata della paura. Forse addirittura potrei essere uno di quelli che si accorgono meglio delle mutazioni in atto. Per le persone “normali” (direbbe il generale Vannacci) avere un corpo e farlo interagire col corpo degli altri non è cosa su cui si debba arzigogolare molto: si fa e basta, senza estasi e senza terrori. Loro ci sono talmente dentro al corpo che i mutamenti gli capitano inavvertiti, come l’acqua che si riscalda pian piano e la rana non si accorge di finire bollita. Per loro possedere un corpo (in entrambi i sensi: essere consapevoli del proprio o entrare in quello altrui) non è un dato sconvolgente, non è una questione metafisica. Così si accorgono meno di quel che sta accadendo: maschi che partoriscono, corpi creati dall’intelligenza artificiale capaci di suscitare passioni, progressiva scomparsa dei caratteri distintivi tra maschio e femmina. Crisi della biologia ed enfasi degli accessori, perfezione prêt-à-porter: il corpo che si ribella al legittimo proprietario (al Creatore?) e gli ricompare come algoritmo. Corpi “aumentati” dalla tecnologia, i cyborg che escono dalla fantascienza per entrare nell’orizzonte della medicina, promesse di pezzi di ricambio che eviteranno al corpo il destino (inevitabile fin qui) di essere mortale.
L’altro giorno cercavo una strada in un quartiere a me poco noto; fermo una ragazza (bella, secondo i canoni a cui ancora mi riferisco) e le chiedo se sa dove stia la via tal dei tali: lei mi sorride e risponde “ora cerco sul cellulare” – era la strada accanto a quella dove vive lei, si sente presa in castagna e si scusa, “faccio fatica a geolocalizzarmi nel mondo”. I corpi contemporanei non sanno più di preciso dove si trovano: stanno fisicamente in un luogo ma col cervello e la parola sono proiettati in un altro – basta vederli con cuffie e display, totalmente insensibili al contesto che li circonda. Anche quando viaggiano, il navigatore satellitare li esime dal prendere coscienza del paesaggio. Insieme ai corpi sta scomparendo lo spazio? Come il corpo umano, anche il grande corpo del mondo si sta facendo più evanescente?
La mia erotomania patetica e coatta, esposta a un tramonto che infiamma e fa le ombre lunghe, sta lanciando un allarme inutilmente apocalittico o avverte con leggerissimo anticipo un sommovimento epocale, come certe bestie captano qualche secondo prima un terremoto in arrivo?
Nelle pagine che seguono proverò a scorciare con un’arroganza vergognosamente sommaria il percorso “naturale” e storico del corpo e le sue principali caratteristiche, per vedere a quali torsioni sia sottoposto oggi e che cosa si prospetta per domani. Magari è soltanto una radiografia del mio disagio, una laudatio temporis acti (“ah, signora mia, non ci sono più i corpi di una volta!”); o una raccomandazione ai giovani, chissà, di non trascurare il corpo nelle loro nostalgie di futuro.
Dal corpo in fuori
Quello di wetware è un concetto vago e paradossale, fondato su una metafora o meglio su un’analogia: tra l’hardware e il software di un computer il cervello umano avrebbe una posizione di collegamento, essendo contemporaneamente una struttura fisica e una centrale di elaborazioni immateriali. Insomma, sarebbe il software installato nel nostro corpo direttamente da Madre Natura, o un robot artificiale “inumidito” da carne e vita. Il wetware può essere inteso in senso riduzionistico, se si pensa che il cervello umano potrebbe essere controllato da un algoritmo di ai, o in senso ottimista progressivo, come prodromico alla realizzazione di un vero e proprio “computer organico” composto da un misto di metallo e materia vivente. Dei neuroni di lumaca sono già stati fatti crescere all’interno di alcuni chip di silicio (che è un metalloide), e con questo ibrido si sono risolte operazioni matematiche semplici.
Un elaboratore di questo tipo necessita, per proseguire la sperimentazione, non solo di energia elettrica ma anche di fluidi nutritivi, e l’ingegneria genetica dovrebbe mettergli a disposizione dei tessuti corporei artificiali capaci di rigenerarsi indefinitamente. Per evitare la vertigine futuristica bisogna fare un passo indietro e rendersi conto che la distinzione tra corpo organico e materiale inorganico non è così netta come il nostro orgoglio umanistico vorrebbe farci credere. Dalla scoperta del fuoco all’uso della selce scheggiata in poi, il corpo umano e la techne non sono mai stati due entità contrapposte ma hanno sempre formato un sistema interattivo. Invece di essere concepito come un sistema chiuso, il corpo dovrebbe piuttosto essere pensato come luogo di accoglienza, come “pellicola liminale”. Insomma il corpo umano non è più al centro nemmeno di se stesso; «le storie sono conoscenza e la conoscenza ci porta alla protesi», riassume efficacemente Antonio Pascale. Il corpo umano è sempre stato un’entità ibrida e ha subìto continue riconfigurazioni; la civiltà stessa è un processo di antropodecentramento – forse il “corpo” come l’ammiriamo al cinema o come l’abbiamo imparato dalla statuaria greca non è mai esistito.
Pensiamo per esempio al rapporto simbiotico tra l’uomo e la pianta: ho detto che il caffè ha dato un notevole contributo all’Illuminismo – ma è stato l’uomo che si è servito del caffè o (come suggerisce Pollan) quella del caffè è stata “una delle strategie evolutive più intelligenti mai trovate da una pianta”, che le ha permesso di espandere il proprio areale da poche zone dell’Arabia e dell’America meridionale a praticamente tutto il mondo? Una rana dell’Africa australe (Xenopus laevis) è servita per mettere a punto la tecnologia dei test di gravidanza, ma parecchio tempo dopo alcune sue cellule, assemblate con un algoritmo di ai, sono state trasformate in xenobot, organismi semisintetici capaci di autoassemblarsi e replicarsi – il test di gravidanza, da parte sua, è servito come meccanismo sociale di controllo del corpo femminile. La riflessione femminista ha insistito particolarmente sul concetto del corpo come “interfaccia”, perché è coerente con l’idea che donne non si è, ma si diventa. «Tutti i corpi, non solo quelli umani, si materializzano attraverso la performatività del mondo», sostiene Karen Barad; «i corpi e i dispositivi tecnologici che li osservano si materializzano a vicenda», conferma Judith Butler; e Paul Beatriz Preciado (transgender F to M) ne conclude che «la natura umana è un effetto della costante negoziazione delle frontiere».
Ma già negli anni cinquanta del secolo scorso, all’epoca di quella che allora si chiamava cibernetica, un filosofo e psicologo della tecnica come Gilbert Simondon (grande passione di Gilles Deleuze) faceva notare che «la cibernetica è insufficiente». L’automatismo dei robot è un grado basso di perfezione tecnica, la macchina che funziona deve avere un quantum di indeterminazione, che si concretizza soltanto nell’interazione con l’uomo; «le funzioni autoregolatrici sono compiute meglio dalla coppia uomo-macchina che dall’uomo solo o dalla macchina sola». «Più l’oggetto tecnico si individualizza, più la finalità esterna svanisce a vantaggio della coerenza interna del funzionamento»; è come se (evolvendo per “mutazioni” e non in modo rettilineo) la macchina perdesse il proprio carattere di artificialità e quasi desiderasse diventare un organismo. Superando il “facile umanesimo” che concepisce la macchina come “straniera”, si deve pensare la tecnologia come qualcosa che si condensa spontaneamente (come fanno i colloidi o i cristalli) secondo linee di forza omologhe alla situazione culturale di quel luogo e di quel tempo.
Se il “transumanesimo” del cristiano eretico Teilhard de Chardin puntava diretto allo spiritualismo, e se alcuni guru delle moderne tecnologie (come Larry Page, Ray Kurzweil o Elon Musk) perseguono il sogno gnostico di una “umanità nuova”, il post umanesimo disincantato promuove l’idea di uno “sforzo tecnopoietico” che l’uomo integrato alla techne dovrebbe compiere, consapevole che l’epifania delle nuove strutture è solo in parte da lui controllabile. Lo spauracchio del goethiano apprendista stregone può essere declinato positivamente unendolo al sottofinale del Faust quando, immaginando le dighe che strappano la terra al mare per renderla coltivabile, solo allora il vecchio peccatore che ha fatto il patto col diavolo può gridare «attimo sei bello, fèrmati».
Ormai si è capito che il futuro della ai non è quello computazionale, cioè svolgere con sempre maggiore rapidità miliardi di calcoli (ormai la chiamano la good old-fashioned ai), ma sarà basato sulle reti neurali e sull’apprendimento per esperienza, o per rinforzo, con “ricompensa” quando la macchina ottiene il risultato voluto. Esattamente come fanno gli uomini nella loro combinazione mente-corpo. Si parla sempre più spesso di embodiment della ai, di “conoscenza incarnata”, e ci si chiede se le macchine arriveranno ad avere una “propriocezione”, cioè una percezione delle loro componenti come quella che l’uomo ha istintivamente delle proprie parti interne ed esterne. Il corpo che stiamo dando alle macchine verrà tolto a noi? Potrà anche la macchina obbedire al proprio “istinto” invece che a ordini impartiti dagli “umani”? La sua esperienza sarà così densa di livelli da possedere addirittura un inconscio? Domande formidabili, che per ora la tecnologia asservita all’economia sta mandando in vacca: le aziende organizzano (al posto dei vecchi brainstorming) dei bodystorming in cui si mandano gli impiegati a fare esperienze sul campo, per capire meglio le esigenze dei consumatori e migliorare i modelli da lanciare sul mercato. A Davos i padroni della finanza provano per un giorno a mettersi nei panni del “consumatore verde mainstream”.
Quindi, scherzi del neocapitalismo a parte, che cos’è in definitiva un corpo umano? È un sistema biotecnologico di enorme complessità, probabilmente il più raffinato risultato dell’evoluzione che sia comparso sulla Terra. Sulla Terra o nell’intero universo? Come è stato possibile che da alcuni acidi nucleici, macromolecole organizzate a spirale, sia uscito chi ha scritto la Divina Commedia, musicato il Don Giovanni, dipinto la cappella degli Scrovegni? Se le molecole organiche sono state portate qui dalle comete, dove sono avvenute le prime sintesi dalla materia inorganica? Siamo una singolarità, una specialità della casa? E tocca a noi, inventando aggregati sempre più avanzati uomo-macchina, conquistare lo spazio? Ci sono in giro miliardi di miliardi di esopianeti su cui le medesime reazioni biochimiche saranno già avvenute infinite volte: quante probabilità ci sono che sistemi complessi simili a corpi si siano formati altrove?
«Dove sono tutti quanti?» si chiedeva Enrico Fermi. Gli organismi viventi che devono averci preceduto sulla strada della complessità, perché lo spazio non l’hanno conquistato loro? Il silenzio cosmico che spaventava Pascal è diventato una radicale alternativa. Ogni progresso nell’evoluzione della vita comporta anche tremende estinzioni – quando (circa due miliardi e mezzo di anni fa) alcune cellule si sono inventate la fotosintesi, fantastica tecnologia per estrarre energia dal sole, questo provocò la scomparsa di quasi tutte le specie anaerobiche. Forse qui non è arrivato nessuno perché sono tutti morti, forse le civiltà più tecnologiche durano pochissimo e non hanno il tempo per espandersi oltre il loro angoletto; l’estinzione è l’alternativa al dominio dell’universo.
Il corpo chiamato Marilyn Monroe, o quello chiamato Sean Connery, sono stati aggregati di provincia, l’Ercole di Baccio Bandinelli è il sogno di un attimo? Forse il corpo umano è il frutto di una hybris di specie, un monumento troppo ambizioso per non finire come la Torre di Babele. O forse per il corpo è finita l’epoca dell’arrogante e sciovinistica autonomia, contro ogni apparenza il narcisismo non è che un riflesso sull’acqua; non si tratta di uscire da se stessi ma di riconoscersi umili frammenti di più vasti aggregati.
I corpi che incontro nel “quadrilatero della moda”, qui a Milano, sono corpi in transizione; non nel senso consueto di transizione di genere, ma perché rappresentano le avanguardie dei corpi che passeggeranno quando io non ci sarò più. Però niente nostalgie conservatrici: più che altro curiosità per il futuro dei corpi nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Questi sono corpi borghesi, fashion victim, ma è a loro che guarda la classe piccola e media – anzi, i ricchi paradossalmente saranno i soli che cercheranno in viaggi esotici i corpi “nudi e crudi”, mentre la classe piccola e media sarà la massa di manovra per l’invasione della virtualità.
Il sesso sarà sempre più online, le differenze genitali avranno sempre meno importanza culturale, l’allungamento della vita fino a centocinquant’anni e la buona salute tecnologicamente garantita consentiranno esperimenti audaci; muterà il rapporto tra principio di piacere e principio di prestazione, tra i corpi vivi e i morti sarà difficile distinguere grazie all’intelligenza artificiale. Saranno corpi fragili a furia di contrastare la fragilità, corpi per buona parte inutili alla riproduzione della specie; lo smart working li avrà disabituati allo spazio, anche la realtà circostante sarà virtuale come il fine a cui tenderà il loro fisico. Eccoli in quattro su una scalinata: le due ragazze in minigonna nera e calze a rete, cosce forti, salendo misurano con gli occhi la meta – i due ragazzi con le unghie dipinte e gli orecchini, il torace depilato, si sporgono come una bandiera che trema.
Ecco la nuova specie: i loro corpi saranno gli involucri in apparenza tradizionali di un sistema culturale sempre più in affanno, in un mondo che si sarà rassegnato a essere bersagliato da segni che non capisce; le voci che udranno durante il lavoro o l’intrattenimento saranno in maggioranza voci sintetiche. Corpi che comunque non potranno fare a meno di desiderarsi, e magari di amarsi.
Da C’era una volta il corpo, Feltrinelli, in uscita il 15 ottobre
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