Allora oggi è il 12 dicembre…»: qualche giorno una mia amica milanese ha pronunciato questa frase quasi tra sé e sé, trovandosi nei pressi di un tizio sui 45 anni. Vedendo perplesso il suo vicino, ha spiegato discreta: «Piazza Fontana. Oggi è l’anniversario». Quando ha visto che quel tale aveva lo sguardo vuoto tipico di chi non ha idea di che cosa si stia parlando, ha lasciato cadere il discorso. Se avesse ripetuto quelle battute a mo’ di test con altre persone, anche istruite, di certo avrebbe ottenuto per lo più la stessa reazione.

Senza saperlo, la mia amica stava convalidando le conclusioni di quella sezione del “Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese” (58esimo della serie) che concerne ciò che gli italiani sanno o non sanno. Il paragrafo che ci interessa si intitola crudamente “La fabbrica degli ignoranti” e rivela cose come le seguenti. Il 55,2 per cento degli intervistati ignora che Mussolini fu destituito e arrestato nel 1943; il 30,3 per cento non ha idea di chi fosse Mazzini; il 30,3 per cento non conosce l’anno dell’Unità d’Italia. Quasi la metà degli intervistati non sa indicare l’anno di inizio della Rivoluzione Francese; il 41,1 per cento crede che l’autore dell’Infinito sia D’Annunzio; il 35,1 non esclude che Eugenio Montale sia stato un presidente del Consiglio; per il 35,9 l’autore dell’Inno di Mameli è Verdi e per il 32,4 la Cappella Sistina potrebbe anche essere opera di Leonardo da Vinci o di Giotto. Inutile poi chiedere informazioni geografiche. Un quarto degli italiani ignorano che Oslo è la capitale della Norvegia e un numero ancora maggiore che Potenza è il capoluogo della Basilicata.

Del resto, se si vuole avere un’idea di questi fenomeni dal vivo, basta guardare qualche frammento di trasmissioni come “L’Eredità”, in cui si chiede in maniera casuale il significato di parole o il riconoscimento di date, personaggi e luoghi: la maggior parte dei candidati, giovani o semigiovani, magari con un rispettabile titolo di studio, messi dinanzi a una quantità di parole, nomi, episodi, date non sanno assolutamente cosa dire. In questo massacro, tutto è stravolto o cancellato: date storiche cruciali, concetti, personaggi, informazioni pratiche – insomma tutto ciò che costituisce la cultura di base, quella che si dovrebbe acquisire a scuola.

I dati Ocse

Siccome nell’attuale democrazia social di oggi ogni opinione vale quanto un’altra, è difficile decidere se questo fenomeno sia un collasso catastrofico (come io ritengo), dato che potrà sempre spuntare qualcuno che lo considera invece un’utile forma di igiene della memoria, individuale e collettiva. Mentre riflettiamo tra le due opzioni, arriva l’Ocse a darci un’inoppugnabile cornice quantitativa dello stato in cui versa la “cittadinanza culturale” degli italiani.

Nell’edizione 2024 della sua indagine internazionale sulle competenze degli adulti (Piacc – Programme for the international Assessment of Adult Competencies), un campione rappresentativo di persone italiane tra i 16 e i 65 anni è stato sottoposto a test su tre ambiti di competenze di base, indicate con etichette inglesi: saper leggere e capire (literacy), calcolare a scopo pratico (numeracy), risolvere problemi basici (problem solving).

Il quadro che ne è venuto fuori è nerissimo e ci permette di optare senza esitazione tra le due soluzioni di cui ho parlato or ora: la cultura di base degli italiani è in condizioni disastrose. Mettendo insieme i risultati del rapporto Censis con quelli dell’Ocse, infatti, emerge che non è colpita solo la cultura di base, ma anche le competenze operative (linguistiche, matematiche e logiche) che la fanno funzionare. Gli italiani sono sotto la media dei paesi Ocse in tutti i tre campi. In particolare, nei test di literacy hanno ottenuto in media 245 punti (9 sotto la media Ocse), in quelli di numeracy 244 punti (11 meno della media), nel problem solving 231 punti (15 sotto la media). Se diamo a questi punteggi un contenuto concreto, il quadro si fa ancora più cupo.

Il punteggio ottenuto in literacy dal 35 per cento degli adulti italiani lo colloca in una posizione pari o inferiore al Livello 1: ciò significa che sanno sì leggere e scrivere, ma riescono solo con difficoltà o non riescono affatto a capire e utilizzare le informazioni che estraggono. Sono analfabeti funzionali. Non basta a confortarci il fatto che, per contro, il 5 per cento di loro ha ottenuto risultati di livello 4 o 5, i più alti. Infatti, nella media Ocse a questi livelli arriva il 12 per cento delle persone. Nella numeracy le cose vanno peggio. Il 35 per cento degli italiani ha punteggi pari o inferiori al Livello 1, cioè non è in grado di eseguire compiti che richiedano più passaggi (come calcolare una proporzione o una divisione semplice). Nel problem solving, le percentuali, già alte, si impennano ancora: il 46 per cento degli italiani (la media Ocse è il 29) non sa risolvere problemi che comportino più di un solo passaggio.

Lungo declino

Questi dati stanno facendo un certo chiasso, ma in realtà non dicono nulla di nuovo. Da diversi anni tutte le rilevazioni internazionali di questo tipo mostrano che, nella cornice di un generale degrado delle competenze di base, gli italiani (e le italiane) sono al punto più basso in Europa. Inoltre, chiunque abbia – come il sottoscritto – insegnato per decenni ha verificato il graduale, inarrestabile declino del sapere presso i giovani, in tutti i campi.

Una ricerca in Piemonte di una qualche fa ha mostrato che, se si propone a un giovane l’inizio di proverbi notissimi, tipo «Tanto va la gatta al lardo…» o «Bandiera vecchia…», la percentuale di quelli che sanno continuarli è bassissima. Ora, i proverbi sono davvero il deep web della memoria collettiva, quello che si trasmette per generazioni in famiglia, cioè senza che si debba impararlo a scuola. La stessa cosa riguarda le frasi fatte, altro tesoro profondo delle lingue.

Non molti anni fa, a una mia dottoranda (sottolineo: dottoranda) che era faticosamente venuta a capo del suo progetto di tesi, dissi incautamente: «Dottoressa, finalmente ci siamo: ora bisogna mettersi ventre a terra». Vedendola interdetta e insospettita, proprio come l’interlocutore della mia amica milanese, le spiegai cosa significava quell’espressione, e le chiesi cosa invece lei avesse inteso. Mi rispose arrossendo: «Credevo che mi avesse chiesto di fare le flessioni».

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La Grande Trasformazione

Può sembrare consolante il fatto che questo declino non colpisce solo il nostro paese, ma tutto l’Occidente, anche se in misura molto minore in alcune aree. Ma siccome il fenomeno corre il rischio di danneggiare in modo irreparabile la crescita di intere generazioni così come dei loro paesi, occorre domandarsi a che cosa possa essere dovuta. Per usare i termini del Censis, dove sta la “fabbrica dell’ignoranza”?

Io credo che la fabbrica dell’ignoranza sia un effetto di quella che chiamerei la Grande Trasformazione, messa in moto dal processo di globalizzazione. Agli inizi, questo venne interpretato come un fenomeno di liberazione: si collegavano paesi e persone, si favoriva il movimento, oltre che dei commerci e del denaro, anche delle relazioni, delle persone, delle amicizie. Pochi si accorsero però che la globalizzazione portava con sé anche una cultura, che maturò gradualmente nei decenni successivi ed è ora arrivata a pienezza. Questa cultura ha creato trend planetari dalla terribile forza attrattiva, che hanno conquistato e poi sottomesso il mondo dei giovani. Mi riferisco a quella miriade di poderose tendenze in cui si intrecciano, spesso in forma parossistica, più ingredienti.

Questi includono il viaggio, l’esaltazione della corporeità, alcuni fenomeni musicali, l’uso precoce di alcol e droga, un consumismo specificamente giovanile, la cultura del corpo e il narcisismo, l’indifferenza o l’avversione a ogni tipo di autorità e istituzioni, l’accantonamento di tutto ciò che suona antico, la fusione di esotico e domestico, in alcuni casi il culto della violenza e della sopraffazione… È chiaro che un mondo fatto così è di gran lunga più attraente di quello che offre la scuola.

La Grande Trasformazione ha creato un tipo di sapere a sé, originato soprattutto da internet, che ha proprietà tutte sue: è enciclopedico (in rete si trova tutto e di tutto), ma è asistematico, superficiale, non garantito da nessuna autorità culturale e tendente a espellere la dimensione del passato. Da qualche tempo questo sapere ha trovato il suo totem: lo smartphone (compie 17 anni in questo 2024), che rende compulsivo un bisogno nuovo: la connessione perpetua.

Qualche dato quantitativo ci aiuta a capire meglio. Una ricerca Istat di qualche mese fa (Nuove generazioni sempre più digitali e multiculturali) ha mostrato che quasi l’85 per cento dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni dispone di un profilo su un social network; nella fascia 17-19 anni la percentuale supera il 97 per cento. Secondo uno dei numerosi studi che l’università Cattolica svolge su questi temi, i ragazzi passano online in media 1-3 ore al giorno, ma uno su cinque supera le 4 ore, sebbene il 40 per cento di loro abbia avuto «esperienze negative» in rete.

Gli effetti

Data la sua potenza attrattiva, la connessione perpetua ha infiltrato nella scuola (e altrove) un incoercibile fattore di interruzione e di distoglimento, che ha già bruciato il cervello di un paio di generazioni e continuerà il suo lavoro sotto forma di intelligenza artificiale e di altre invenzioni che non siamo neanche in grado di prevedere. Un esempio di eccezionale evidenza ci è offerto da una notizia rivelata dal New York Times (del 2 giugno), che è vera cronaca del futuro: al temibile Elon Musk è venuta in mente l’idea di portare, mediante satelliti e antenne appositamente piazzati, la connessione internet fino ai Marubo, un’etnia brasiliana da sempre isolata nella foresta amazzonica.

Arrivati d’improvviso e gratuitamente, gli smartphone hanno dapprima affascinato la piccola tribù, poi l’hanno resa velocemente dipendente, al punto che dopo nove mesi tutti hanno smesso di muoversi, di parlarsi e di lavorare. In altre parole, una trovata che serviva a mettere questa gente in contatto col mondo ha finito per escluderla dal proprio mondo!

Alcuni paesi sembrano essersi accorti che le nuove generazioni stanno diventando come i Marubo. L’anno scorso la Finlandia ha vietato l’uso dei cellulari a scuola. Halla Tómasdóttir, eletta qualche mese fa presidente dell’Islanda, ha in programma il contrasto dei social media sulla salute mentale dei giovani. Anche in Francia il tema è urgente. Prima della disastrosa decisione di sciogliere il parlamento, era stato consegnato a Emmanuel Macron un rapporto di specialisti dedicato in particolare a «la realtà dell’iperconnessione sofferta dai bambini» e alle «conseguenze per la loro salute, il loro sviluppo, il loro futuro», ma anche per il futuro «della nostra società, della nostra civiltà». Ora anche Valditara si è accorto della questione. Ma basterà proibire o limitare per ricostruire quel che è andato perduto?

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