Antesignana di un femminismo che si potrebbe definire laico per l’assenza di presupposti e tensioni di natura ideologica, Margarethe Von Trotta è uno dei volti della storia del cinema del Novecento europeo che meglio ha saputo raccontare la storia e lo sguardo delle donne del nostro secolo e non solo. Esponente del Nuovo Cinema Tedesco, con radici nella Nouvelle Vague, Margarethe Von Trotta torna in Italia con il suo ultimo film Ingeborg Bachmann - Journey into the desert, presentato al Festival di Berlino nel 2023 e proiettato il 12 aprile a Venezia in occasione del Festival Incroci di Civiltà in collaborazione con il progetto Una camera tutta per sé promosso da Isola Edipo, Rete Cinema in Laguna e Università di Ca Foscari.

Come nasce il suo incontro con il cinema?

All’inizio degli anni Sessanta sono partita da una Germania triste e segnata e sono andata a Parigi, dove sentivo un fermento particolare, per imparare il francese. In pochissimo tempo sono stata travolta dai film della Nouvelle Vague che mi hanno aperto una finestra su un mondo che fino a quel momento non conoscevo davvero: il cinema. È stato poi quando ho visto Il settimo sigillo di Bergman che ho capito che nel futuro avrei voluto fare quello. Anche se ancora non sapevo come e quanto quel futuro sarebbe durato.

A partire dal suo primo film Il secondo risveglio di Christa Klages (1978), citandone poi solo alcuni come Sorelle (1979), Anni di piombo (1981) e ancora Rosa Luxemburg (1986) Rosenstrasse, (2003) Hannah Arendt (2012) fino a questo lavoro dedicato a Ingeborg Bachmann, si è sempre occupata di figure femminili di cui ha indagato le condizioni sociali, esistenziali e biografiche, senza però mai farne retorica. È stata una scelta a priori o è accaduto naturalmente così?

È venuto un po’ naturalmente e al contempo forzatamente. Le grandi donne sui cui ho fatto dei film, come ad esempio Rosa Luxemburg, Hannah Arendt o Ingeborg Bachmann, sono donne a cui mi sono dedicata inizialmente su sollecitazioni esterne. Non erano figure a cui io stessi pensando in quel momento. Rosa Luxembourg, ad esempio, era un film che voleva realizzare Fassbinder.

Quando è morto, il suo produttore è venuto da me e mi ha detto «questo è un film che devi fare tu sia in virtù del legame che avevi con Fassbinder sia del fatto che sei una donna». Questa era la prima volta in cui l’essere donna mi aveva messa in una condizione favorevole. Così ho cominciato a studiare moltissimo e fare moltissime ricerche sulla vita della Luxembourg. E a partire da quel momento ho cercato il mio punto di vista per raccontarla. Da lì è venuto un po’ tutto da sé. Probabilmente il fatto che in Germania fossi una delle poche donne a fare cinema ha fatto sì che fossi il primo nome a cui si pensava quando si voleva far raccontare certe storie.

Dopodiché credo che il mio raccontare donne da tutta la vita sia legato anche a un fatto tanto naturale quanto ovvio: sono una donna e sono figlia di una madre non sposata, molto intelligente e indipendente che mi ha cresciuta stimolandomi sempre a cercare la mia autonomia e la mia affermazione. Sono quindi cresciuta con questa postura.

Tra tutte le donne che ha raccontato ce n’è qualcuna con cui sente di aver mantenuto un legame interno?

Un po’ con tutte. Il modo in cui mi immergo nelle loro vite in tutto il periodo di ricerca e l’intensità con cui penso a loro mentre realizzo un film a loro dedicato, fanno sì che mi entrino dentro e lì restino. Se dovessi poi proprio dire quali donne di quale mio film percepisco intimamente in modo più chiaro dentro di me, forse direi che sono le due sorelle del film Sorelle - L’equilibrio della felicità (1979), il mio secondo film. Ho scoperto solo molti anni dopo di avere un una sorella. Con quel film forse ho intuito inconsciamente di non essere figlia unica.

Il cinema, nonostante gli sviluppi tecnologici, continua ad essere una grande macchina novecentesca che si regge sul lavoro sinergico di moltissime figure e competenze. Tra queste il ruolo del regista, spesso raccontato come solitario. Che tipo di esperienza è stata ed è per lei?

La mia storia di regista è una storia particolare perché in realtà sono entrata nel mondo del cinema facendo l’attrice, unico modo allora per una donna, soprattutto nella Germania dell’epoca, di essere accolta in questo settore. Lì per lì si è trattato un po’ di un salto nel vuoto, di un tentativo che ho fatto con grande insicurezza.

A posteriori posso dire che fare l’attrice per degli anni si è trasformato in un privilegio: non solo mi ha aiutata ad accedere alla possibilità della regia ma mi ha aiutata successivamente anche nella direzione degli attori stessi perché conoscevo e conosco la condizione del loro ruolo e della posizione in cui un attore è quando si trova con un copione tra le mani e su un set. Dopodiché è evidente che a me interessasse fare la regista e una volta conquistata quella posizione non ho più fatto l’attrice.

Da quel momento in poi ho fatto esperienza, oltre che della dimensione collettiva del processo di realizzazione di un film, anche della solitudine fisiologica e indispensabile con cui un regista deve fare i conti per quanto riguarda tutta la fase di ideazione, elaborazione, ricerca e scrittura. Diciamo che fare cinema corrisponde a vivere in un movimento di tensione continua tra individualità e collettività.

In questo movimento, è centrale il momento in cui si scelgono gli attori e le attrici. Nel corso del tempo ha consolidato il rapporto con alcune attrici che tornano spesso nei suoi film. Prima tra tutte Barbara Sukowa. Come è nata la prima collaborazione con lei?

Avevo fatto alcuni film con Fassbinder e avevo chiesto suggerimento a lui mentre stavo scrivendo Anni di Piombo (1981, Leone d’oro alla 38esima Mostra del Cinema di Venezia) e lui mi ha consigliato Barbara con cui aveva già lavorato. L’incontro con lei poi è stato abbastanza immediato da quel momento in poi per tutti i progetti cinematografici in cui l’ho coinvolta.

Devo dire che si è trattato di un’immediatezza che poi mi ha sempre accompagnata nei film che ho fatto. Quando devo attribuire ruoli e personaggi procedo praticamente sempre per istinto. Credo sia per una ragione di natura creativa e di carattere ma anche forse perché quando facevo l’attrice odiavo fare i provini e non posso pensare di far sentire attrici e attori come mi sentivo anche io all’epoca.

Mi sembra un discorso interessante perché in controtendenza con un orientamento comune che invece affida a una raffica di provini il destino di attrici e attori…

Credo sia un fattore anche culturale. Alcuni paesi usano il provino più come un dogma. Io invece devo dire che ho bisogno di sentirmi libera nella scelta delle attrici e degli attori che diventeranno volti e corpi che incarneranno i personaggi nella cui vita mi sono immersa per lunghissimi tempi di ricerca. Quindi procedo prevalentemente per intuizione, che è un procedimento che è più in continuità con un movimento creativo anche più esistenziale.

Dirigi film dal 1978 e siamo nel 2024: quanto è cambiato fare film durante questo tempo?

Io credo che fare film oggi sia molto più difficile. Se è vero che lo sviluppo tecnologico ha ampliato la gamma delle possibilità e aumentato il grado di precisione, ha anche reso tutto più difficile e mediato nella creazione. Ha allungato tutti i tempi di realizzazione sia per ragioni di natura produttiva sia per le possibilità a cui puoi accedere nel processo di post produzione.

Nuovi film all’orizzonte?

Lo sguardo è sempre rivolto al futuro e intravvedo nuovi progetti. Ma, dato che, come mi ha detto una volta Nanni Moretti, «non bisogna parlare mai di un film che non si è ancora fatto altrimenti alla fine non lo si farà», non ne parlerò (ride, ndr).

© Riproduzione riservata