La cultura europea è stata in diversi momenti della sua storia severamente critica verso sé stessa. Tutte le civiltà hanno tentato di soggiogarne altre. Solo quella occidentale se n’è pentita «come di un reato»
La cultura europea, spesso accusata, e non sempre a torto, di considerarsi unica erede di un messaggio universale, è stata anche severamente critica verso sé stessa in diversi momenti storici. Tra il Cinquecento e il Seicento, ad esempio, le scoperte geografiche resero possibile un confronto con il Nuovo Mondo, consentendo di affrontare il rapporto tra l’Europa e l’Altro in maniera differente rispetto al passato.
Le parti così si invertivano e gli europei, come ha scritto Federico Chabod in Storia dell’idea di Europa, potevano, in molti casi, apparire predatori e violenti in confronto agli abitanti di terre lontane.
La polemica antieuropea
Nel libro primo dei Saggi, Montaigne scriveva, alla fine del Cinquecento, che siamo portati a chiamare barbarie ciò che non rientra nei nostri usi, in quanto i punti di riferimento degli uomini si identificano con i costumi dei paesi in cui vivono. Se poteva allora considerarsi barbara la pratica di cibarsi dei prigionieri, scriveva a proposito dei cannibali, bisognava anche ammettere che vi è maggior barbarie nel mangiar vivo un uomo, come fanno gli usurai, che morto, come fanno i “selvaggi”. La semplicità di queste comunità, in cui non sembrava esserci traccia dei contrasti sociali e politici che funestavano la vita europea, evocava il mito dell’ Età dell’oro, che aveva trovato espressione solo nell’arte e nella letteratura.
Questi popoli possono allora essere chiamati barbari, giudicandoli secondo le regole della ragione, commentava Montaigne, «ma non confrontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie». Nel descrivere “benevolmente” le crudeli usanze dei cannibali brasiliani, Montaigne non intendeva però rinnegare l’Europa, ma difenderla da quanti, a suo avviso, ne disonoravano i valori, combattendosi fra loro, paradossalmente in nome della religione. La polemica antieuropea, da Montaigne agli illuministi, ha scritto Chabod, derivava infatti da un grande amore per l’Europa, e dal desiderio di declinare in modo cosmopolitico una eredità umanistica che la politica rischiava di compromettere in modo irreversibile.
Nel clima della Francia illuminista, Montesquieu, nelle Lettere persiane (1721), non risparmiava le sue critiche ai sovrani europei, che, facendo prevalere la loro volontà di dominio, non erano in grado di superare la logica della guerra nelle relazioni internazionali. Non mancava tuttavia di osservare che, per quanto la ragion di stato alimentasse l’intolleranza e il potere assoluto, si era ben lontani dal dispotismo dei sultani, che sottomettevano i sudditi a una condizione servile. La religione islamica, sottolineava Montesquieu, nelle Lettere come ne Lo spirito delle leggi (1748), attraverso un radicale controllo sulla società civile e sullo stato, limita fortemente la libertà dei singoli, e delle donne in particolare.
Se in Europa le istituzioni politiche tendono a garantire le libertà individuali, la ragion di stato si traduce però in rapporti di forza, che impediscono di realizzare la pace tra i popoli e tra le diverse confessioni religiose cristiane. Queste considerazioni non impediscono tuttavia a Montesquieu di prendere atto che il cristianesimo, a cui peraltro non risparmia critiche feroci, tende sempre più alla tolleranza, mentre l’islamismo appare del tutto ostile ai costumi liberali.
Da Wittfogel a Foucault
La denuncia del sistema di potere orientale diviene un pretesto, in Montesquieu, per condannare l’assolutismo di Luigi XIV, ammirato invece da Voltaire. Molte delle argomentazioni presenti nelle Lettere persiane e ne Lo spirito delle leggi si ritroveranno poi in Karl Wittfogel, che, nel suo celebre libro del 1957, applicherà il concetto di “dispotismo orientale” alla Russia sovietica e allo stalinismo.
A quasi vent’anni da Il dispotismo orientale di Wittfogel, e a più di due secoli dalle Lettere persiane, la rivoluzione islamica in Iran esercitò una grande seduzione su molti ambienti dell’intellighenzia occidentale e su Michel Foucault in particolare, come dimostra il suo Taccuino persiano, in cui sono raccolti gli articoli che il filosofo francese scrisse, tra il 1977 e il 1978, per il Corriere della Sera.
Il 22 ottobre del 1978, nell’articolo intitolato Ritorno al profeta?, dopo aver manifestato il suo imbarazzo nel parlare dell’ideale del governo islamico, confessava di essere rimasto impressionato dal «tentativo di aprire nella politica anche una dimensione spirituale».
Si chiedeva poi quale senso avesse, per gli iraniani, cercare “a prezzo della loro stessa vita”, quella spiritualità che in Occidente era svanita dopo il Rinascimento e le guerre di religione. Avvertiva quindi l’esigenza di prendere le distanze dallo scetticismo che prevaleva in Occidente riguardo alla prospettiva di una repubblica islamica.
Il governo islamico, secondo l’imam Ruhollah Khomeini, non ha nulla in comune con le forme di governo esistenti, democratiche o autocratiche, e può definirsi costituzionale. Si tratta però di un costituzionalismo in cui l’approvazione delle leggi non è in balia del «capriccio di alcuni individui o della maggioranza».
L’ordinamento costituzionale è infatti connesso «a una serie di condizioni rese esplicite dal nobile Corano», che conducono al «governo della legge divina sugli uomini», dal momento che «nell’islam il potere legislativo e la facoltà di legiferare sono prerogative esclusive di Dio altissimo».
Poste tali premesse, è evidente, come scrive Khomeini nel suo Il governo islamico o l’autorità spirituale del giureconsulto, che l’opinione individuale «non conta niente: tutti sono tenuti a uniformarsi alla volontà di Dio». I veri statisti si identificano dunque con i “giusperiti”, che possono coniugare la volontà divina, presente nel Corano, con le leggi poste a fondamento della comunità dei cittadini-fedeli.
Lo scetticismo e il relativismo, che potevano apparire a Foucault deboli, se non imbelli, rispetto alle istanze spirituali della rivoluzione khomeinista, costituiscono sicuramente tratti essenziali che distinguono le democrazie liberali dalle teocrazie. Il Taccuino persiano volle essere una denuncia impietosa verso le liberaldemocrazie occidentali, considerate società in piena crisi valoriale, rispetto alla tensione spirituale iraniana. Tale orientamento, che attraversa molti settori della cultura e dei movimenti terzomondisti, si è consolidato nel corso del tempo, trovando consensi sempre più ampi.
“Occidentalismo”
Nel 2004 Ian Buruma e Avishai Margalit definirono con il termine “occidentalismo” l’immagine disumanizzata dell’Occidente, costruita da quanti nutrono sentimenti antiamericani o antieuropei. Il cosmopolitismo, la libertà sessuale, l’individualismo, sono infatti i bersagli privilegiati della variegata galassia fondamentalista, dagli ayatollah iraniani e afgani ai terroristi di Hamas e agli ideologi della Russia di Putin. Il termine “occidentalismo” rappresenta il polo opposto rispetto al concetto di “orientalismo”, elaborato da Edward Said nel 1978, nel suo Orientalism.
Per lo studioso palestinese Oriente e Occidente erano concepiti, tanto nel pensiero comune quanto nel mondo accademico, in una accezione essenzialistica. Si sarebbe così consolidato un paradigma in cui il misticismo e l’indolenza orientale, la razionalità e il pragmatismo occidentale, incarnavano due visioni del mondo contrapposte.
Si riproponeva così, con l’esigenza di “modernizzare” l’Oriente, il mito del “fardello dell’uomo bianco”. Tramontato questo mito, insieme con le sue ambiguità e le sue ingiustizie, rimane il fatto che il costituzionalismo occidentale e la difesa delle libertà civili rappresentano ancora un ideale regolativo per le società che intendono superare modelli istituzionali in cui lo stato e le comunità annullano le libertà dei singoli.
Non bisogna dimenticare, come ha scritto Bernard Lewis in Culture in conflitto, che, nel conquistare e soggiogare altri popoli, gli europei si sono conformati a una pratica comune a tutta l’umanità. Non è allora tanto interessante capire perché ci provarono, ma perché ci riuscirono e perché, dopo esserci riusciti «si pentirono del loro successo come di un reato».
Se il successo in questo campo fu l’unico dell’èra moderna, il pentimento fu l’unico della storia. Nel momento in cui la cultura occidentale dovesse finire, prosegue lo storico inglese, imperialismo, razzismo e sessismo non finirebbero con lei, ma a morire sarebbero la libertà di denunciarli e gli sforzi per superarli.
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