- Sulle sponde del Tamigi c’è un ragazzo alto e sottile che batte a macchina: davanti a lui ha un cartello che recita «dimmi tre parole e ti scrivo un racconto»
- Quello di Adam E. Holton può sembrare un esercizio anacronistico, eppure lo scrittore riesce a mantenersi proprio grazie a questi racconti flash scritti in cinque minuti e pagati a offerta libera
- Ma non sono solo una fonte di guadagno: per lui la letteratura è un modo di entrare in contatto con le persone. «Stando per strada ho scoperto che ciò che vogliono tutti è qualcuno con cui parlare»
È una domenica assolata e le sponde del Grand Union Canal, di fronte alla libreria su una barca Word on the Water, sono piene di gente. Tra loro c’è un ragazzo alto e sottile che digita forsennatamente su una macchina da scrivere. Indossa una giacca di velluto bucata, ha i capelli rossi e gli occhi blu. Un cartello recita: «Dimmi tre parole e ti scrivo un racconto». Resto basita di fronte a un esercizio artistico così anacronistico, così contrario alla corrente del nostro tempo.
Una volta, in una residenza di scrittura in Svezia, mi lamentai con uno scrittore georgiano del fatto che la letteratura ormai sia così legata al profitto. Lui mi rispose: «Al contrario, devi sentirti grata. Se non fosse avvenuto questo processo, sarebbe morta». Aveva ragione anche lui: si può guardare la stessa cosa—la letteratura che naufraga nell’epoca del consumo—dal lato del danno socio-artistico oppure, appunto, dal lato del profitto, non economico però: anziché crucciarsi del tempo che cambia, provare sollievo che un’arte così sofisticata abbia trovato il modo di sopravvivere adattandosi ai limiti dell’epoca. Eppure entrambe le posizioni, compresenti ormai nella mia testa, sarebbero state smentite dall’incontro con quel trentatreenne dai capelli scompigliati di nome Adam E. Holton.
Adam è stato molte cose. Atleta di hockey sul ghiaccio, modello di nudo per i pittori londinesi, giornalista, giardiniere, capo cameriere di un ristorante italiano e poeta per bambini. Inoltre è stato innamorato tante volte e disposto ogni volta a mettere tutte queste identità da parte. Ora, come si definisce sul suo sito, è autore itinerante, eticista e pianista. Creando racconti flash (cinque minuti) per estranei sulla sponda del fiume, guadagna abbastanza da potersi permettere un appartamento nel quartiere altolocato di Angel.
«E tutto grazie a un istante della mia vita: quando mia madre è entrata nell’orfanotrofio e io, a sei mesi di vita, l’ho scelta. È stata lei che durante l’infanzia mi ha incoraggiato a fare qualcosa della mia immaginazione fuori controllo».
Ma come hai iniziato?
Vivevo in Austria con la mia ragazza, Evelyn. Mi ero innamorato di lei la prima volta che l’avevo vista, a una festa, quando ho visto i suoi occhi cambiare colore. L’avevo seguita lì, nella sua minuscola città in Austria, per cercare di far funzionare la relazione. Tutto quello che facevo era per dimostrarle il mio amore. Le dicevo: ogni cosa significa «ti amo Evelyn». Nel frattempo ho girato per l’Europa dell’est con il mio romanzo filosofico The Last juniper tree, che mi sono autopubblicato.
Hai provato a mandarlo a un editore?
No. Non m’interessa quella cosa lì.
Cioè?
Per me un libro nasce per avvicinarsi agli altri. Il mio è in carta riciclata e sul mio sito si può scaricare la colonna sonora al piano composta da me. Mi sono seduto al gelo nelle strade ucraine, dicendo ai passanti se volevano scambiare due chiacchiere con uno scrittore. Molti lo facevano. Offrivo loro il libro e il caffè.
Riuscivi a guadagnarti da vivere?
No. Sono tornato in Austria in bancarotta, ho chiesto un aiuto finanziario al governo austriaco ma me l’hanno negato perché non avevo guadagnato abbastanza l’anno precedente. Avevano stabilito un tetto minimo di stipendio al di sotto del quale eri troppo povero per ricevere un aiuto finanziario.
E poi?
Sono andato a lavorare per un festival musicale in Alto Adige. A Napoli invece ho avuto un’illuminazione sul fatto che mi sarei dovuto trasferire lì. Infatti lì è ambientato il mio secondo romanzo, in lavorazione.
E il primo?
Parla di due persone che discutono della natura umana: non tutto è competizione e vantaggio personale. Io cerco di trovare uno spazio per la gente. Si è perso il senso di comunità.
E tu lo hai ritrovato?
Sì. Stando per strada, nel 2020, ho scoperto che ciò che vogliono tutti è qualcuno con cui parlare.
Pensi c’entrasse qualcosa l’isolamento imposto dal Covid
Quello ha esacerbato tutto, certo, ma il problema c’era anche prima. Credo siano tutti ansiosi di trovare una soluzione ai problemi diversa dalla violenza.
Ad esempio la letteratura?
Sì. E uno dei problemi è internet. Gli adolescenti mi dicono che sono confusi dal concetto di privato all’interno del web. Cioè, non è un controsenso?
Tu non sei sui social media?
No, non ne comprendo il senso.
Scrivi in uno spazio pubblico eppure non esisti online. È un manifesto? Una sorta di nostalgico ritorno all’isolamento dello scrittore attraverso il paradosso della sua esposizione reale?
È solo ciò che desidero: stare a contatto con la gente. Amo le persone.
Ti senti compreso?
No.
Ma le ami lo stesso…
Sì, il fatto che non mi comprendano mi fa sorridere, è l’infinita commedia umana. La mia idea di vita è basata su una specie di senso dell’umorismo cosmico. Ti è mai capitato che immaginassi una cosa e poi accadesse davvero?
Sì. Se vuoi saperlo, proprio ieri ho introdotto nel romanzo che sto scrivendo un personaggio di nome Adam con i capelli rossi e gli occhi blu, e oggi eccoti qui…
Vedi? Non è senso dell’umorismo cosmico?
Per me no. Per me è un varco che si apre a volte nel tessuto delle cose, una crepa della realtà che ne mostra altre, grazie alla scrittura.
Sì, hai ragione anche tu. È una prospettiva diversa.
Già. Prospettive diverse. A me l’incomprensione degli altri infastidisce, a te diverte. Infatti le conclusione etiche sono opposte: tu ami gli esseri umani e io li detesto.
Esatto!
Però Evelyn l’hai lasciata in Austria…
Ma è grazie a lei che è nato questo mio lavoro. Eravamo in Slovenia su una spiaggia piena di meduse. Siccome non potevamo fare il bagno, avevo proposto un gioco: dimmi tre parole e ti racconto una storia.
Mi ricorda un gioco che facevo da piccola…
Lo facevo anche io! Insomma, lei mi aveva detto: medusa, scacchi, Lubjana. In seguito, quand’ero a Londra da solo e mi aveva chiesto come andavano le cose, avevo inventato la balla che stavo guadagnando scrivendo racconti basandomi su tre parole proposte dai passanti. Lei ci ha creduto, così quando poi mi ha detto che sarebbe venuta a trovarmi sono entrato nel panico. Ho dovuto rendere vera la mia balla. Non è divertente? Mi sono messo per strada con la mia macchina da scrivere presa in Canada, unica cosa che avevo riportato con me in Inghilterra…
Perché eri in Canada?
Per amore, come al solito. E insomma, mi sono messo lì con la macchina da scrivere, ma già al primo racconto (parole: facile; essere; felici), mentre digitavo nervosamente la lettera H di happy…si è rotto il tasto. Una vera fregatura, visto che è la lettera più popolare della lingua inglese. Sono riuscito a finire il racconto senza quella lettera, poi è arrivata la persona successiva e una delle tre parole che mi ha dato era Evelyn. Io sono scoppiato a ridere, e tutta la tensione di quella che percepivo come una maledizione che mi ero lanciata da solo è scomparsa. Il giorno dopo sono andato a comprare da un tipo di Greenwich una macchina da scrivere identica: una Smith-Corona.
Quanto chiedi per i tuoi racconti?
Offerta libera. La gente mi ha pagato di tutto, da tre prugne e duecento sterline.
Le tre parole più strane che ti sono capitate?Anagramma/fato/diarrea.
Come mai una passione così tenace?
Curiosità. Non avendo conosciuto i miei genitori biologici, c’è sempre quella domanda in me: e se? Tutto nasce da quella domanda.
Insomma, in fondo si riduce sempre tutto a cosa decidiamo di fare del dolore. Può diventare qualcosa di molto creativo.
Sì. In particolare trovo utilissime la rabbia e la confusione.
Noto che in tasca ha una copia di Il misantropo di Molière e un taccuino nero. Gli chiedo di sfogliare il taccuino e scopro che lo compila dall’ultima pagina alla prima. Non gli chiedo perché. Invece mi alzo e gli dico che abbiamo finito: ha davvero detto tanto. Mi risponde: «Sai, i miei amici dicono che l’epitaffio sulla mia lapide dovrà essere: disse tante cose».
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