È ironico ma arriva a Venezia 81, nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori, accompagnato dalla sua brava diffida. È ironico perché è la materia stessa di cui è fatto il film. C’è un minuto e mezzo di immagini da riscattare (tratte peraltro dal primo film della stessa regista, Una casa in bilico, Nastro d’Argento come migliore opera prima nel 1985). Prezzo richiesto: diecimila euro.

L’intero film, tre anni di lavoro e passione, ne costa meno di 200mila. Curiosamente l’intoppo, contestato in extremis, suona minaccioso. La proiezione filerà liscia? La neverending story narrata da Antonietta De Lillo nel suo L’occhio della gallina va in scena davanti ai nostri occhi.

De Lillo ha ricostruito, tappa per tappa, la vicenda esemplare di malcinema all’italiana, se mi passate il neologismo, che da vent’anni la relega tra gli intoccabili, nel senso delle caste indiane, non nel senso epico di Brian De Palma. È l’ostracismo radicale che le è stato inflitto, come racconta in dettaglio nel film, a partire da Il resto di niente, su Eleonora de Fonseca Pimentel, protagonista una magica Maria De Medeiros, passato nel 2004 a Venezia con riscontri e paragoni così entusiastici da risultare all’autrice perfino imbarazzanti.

Ed è una storia di ordinaria ingiustizia, di una battaglia giudiziaria infinita che ricorda le cause paludose romanzate da Charles Dickens – Casa desolata fa testo – dove puoi vincere in tribunale ma le sentenze restano senza effetto. Storia kafkiana di cancellazione artistica e professionale da raccontare con leggerezza e umorismo, tragicomica, a vederla da fuori, ma troppo emblematica per non parlarne con la regista napoletana, alla vigilia di un festival lagunare che dovrebbe certificare anche efficienza e salute del nostro sistema-cinema.

«Penso che dovrebbe essere arrivato il momento di mettere una lente di ingrandimento come quelle di Sherlock Holmes sul nostro cinema», dice Antonietta De Lillo, «e in fondo è giusto che L’occhio della gallina arrivi proprio in questo momento, in concomitanza con questo nuovo decreto che avrebbe dovuto riequilibrare un po’ la legge Franceschini. Mi aspettavo dei tagli verso l’alto, non verso il basso. Invece il decreto potenzia questo “turbocapitalismo” che ci attanaglia, e che minaccia non solo il cinema ma la nostra società e la nostra cultura».

Tra gli aneddoti surreali della sua tormentata vicenda c’è un’annunciatrice Rai che presenta il suo Il resto di niente come un film di Florestano Vancini..nemmeno la firma!

Gli errori capitano, ma curiosamente la collezione di errori casuali che ho capitalizzato nel corso degli anni ha assunto proporzioni grottesche. È una strana somma di “distrazioni” che ti fa il vuoto intorno. Ma non ho mai perso fiducia. Arriva il giorno in cui le persone riaprono gli occhi, e questo film è dedicato a loro. Perché se da un lato racconta una storia di mortificazione, dall’altro racconta la possibilità della resistenza.

La mia è stata una resistenza gentile, su tre fronti: quello personale, quello cinematografico e quello giudiziario. Lo sforzo più impegnativo è stato tenere i nervi saldi, evitare di avvelenarmi. E il sostegno delle mie figlie in questo percorso è stato determinante.

Da quanti anni non riesce a farsi produrre un film?

Da vent’anni. Il resto di niente aveva avuto vicende produttive complicate, era stato già un miracolo completarlo, ma aveva avuto un serio finanziamento pubblico, premi importanti e voci perfino commoventi di elogio. Avrebbero dovuto essere tutti contenti. Gli esercenti di tutta Italia chiedevano copie del film. Oggi è la forza commerciale a decidere.

Quando puoi imporre un film, a prescindere dal suo valore, a colpi di 500 copie e più, la cultura è affossata. Io mi sono battuta su quella trincea, come Giovanna D’Arco, d’accordo con tutti i miei compagni di lavoro. Il resto di niente è stato distribuito in venti copie, il pubblico se lo andava a cercare nelle poche sale che lo proiettavano. Ho chiesto in tutti i modi che aumentassero le copie, ho cercato di dialogare. Ma che il film fosse visto non importava a nessuno. Fine del viaggio: uno spreco insensato, anche per le casse pubbliche.

E qui De Lillo diventa persona non gradita..

Semplicemente, ho chiesto le ragioni di questa pessima distribuzione. E lo farei di nuovo, perché credo che un autore debba chiedere giustizia se un film che funziona viene messo nel cassetto. Il risultato è stato una bella citazione di 250mila euro da parte del distributore, l’Istituto Luce. La cosa che più mi fa impressione è che i miei interlocutori, le mie controparti in questi anni, sono tutti enti pubblici, che non dovrebbero utilizzare la giustizia come strumento di paura.

Nell’immediato ho avuto molti autori al mio fianco, ma erano altri anni, più solidali. In tribunale il Luce perde sia in primo che secondo grado: la Giustizia funziona, ma le ricadute vengono dilazionate sine die. Non c’è mai stato verso di ristabilire un qualsiasi dialogo, e l’ho strenuamente cercato. Ero un nemico pubblico.

Mi hanno risposto con silenzio, porte in faccia e “distrazioni” di ogni tipo. Ero un autore da cancellare. La “punizione divina” per aver difeso il mio film si è poi spostata dal Luce al Ministero stesso. Il mio progetto successivo, kafkianamente, è risultato il primo dei non finanziati per mancanza di fondi e variazioni consimili. Eppure avevo un punteggio altissimo, perché all’epoca – oggi non più – valeva ancora la valutazione artistica dei progetti.

Ma ha continuato a lavorare, autoproducendosi, a bassissimo costo.

Ho fatto film con budget ridicoli: 50mila euro, settantamila, anche 20mila, spesso con l’appoggio della Campania Film Commission, che mi è sempre stata vicina. Oggi sotto i tre milioni e mezzo un film viene considerato low budget.

Con la mia minuscola Marechiarofilm ho sperimentato i “film partecipati”, siamo a quota tre. Ed era tecnicamente impossibile escludermi dai cosiddetti “contributi automatici”, perché anche se i miei lavori non avevano riscontro commerciale alla Mostra di Venezia ci andavano. Per me però misteriosamente la strada è sempre tortuosa e le pratiche non riuscivano mai a concludersi.

Il suo è un caso estremo, ma sicuramente non isolato. Perché raccontarlo in un film?

Ormai ci sentiamo tutti senza speranza, ci siamo persuasi che il potere possa tutto su di noi. Invece dobbiamo riappropriarci del nostro potere, di un potere buono, delle nostre capacità. Mi avvicinano persone che non hanno niente a che fare con il cinema ma si riconoscono nella mia storia. Io non mi sento mortificata, non mi sento una poveraccia. O quantomeno mi sento una poveraccia tutta d’un pezzo. Se non vivevo questa esperienza era meglio, ma mi ha dato una consapevolezza che posso mettere a disposizione di tutti. C’è un discorso di fondo da riaprire sul nostro cinema. Leggo dichiarazioni tipo: «Si producono troppi film», «Bisogna sgonfiare la bolla»...

La bolla non l’hanno creata i film piccoli e medi, ma il fiume di soldi arrivati a un pugno di società. Gli autori dovrebbero riprendersi il ruolo di apripista culturali, riprendersi scampoli di utopia. Diciamo la verità: tolto il caso Cortellesi, i risultati del nostro cinema sono piuttosto deludenti, e a perdere siamo tutti.

Quando da bambina mi accadde di vedere l’occhio di una gallina che si chiudeva al contrario, dal basso verso l’alto, fu uno shock: credevo di avere le allucinazioni. Capire che stavo solo imparando a osservare la realtà, per strana che potesse sembrare, mi ha liberato da tante paure. L’occhio della gallina è una buona scuola. Non solo per fare cinema, per vivere.

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