Nel “Primo libro di didattica della storia” (Einaudi) gli strumenti per smontare la visione dell’insegnamento lineare della storia, «dall’alto di una predella», a cui la commissione per la revisione delle indicazioni nazionali sembra affezionata
Si sfogliano le pagine de Il primo libro di didattica della storia (Andrea Micciché, Igor Pizzirusso, Marcello Ravveduto, Einaudi, 2025) mentre scorre il dibattito intorno alla riforma delle Indicazioni nazionali e si accavallano le dichiarazioni di membri autorevoli della commissione ministeriale. Impossibile una lettura che non risenta di questo turbinio di idee e preoccupazioni. Lo si capisce fin dalla prima parte di quest’opera, dedicata ai fondamenti di storiografia e didattica, scritta da Andrea Micciché. A memoria, uno dei pochi sunti di storiografia che non parte dai lamenti sullo stato penoso della storia e del suo insegnamento, crisi che impone, a detta dei responsabili della commissione, anche l’improrogabilità di questa riforma.
È una didattica matura, quella che Micciché ci fa conoscere, che non ha bisogno di motivazioni esterne per giustificarsi né, come accadeva in passato, di accreditarsi come strumento per una scuola futura e possibilmente rivoluzionaria. Le ragioni di questa didattica sono interne. In primo luogo sono costituite dall’enorme progresso degli studi storici. E qui va dato a Micciché il merito di non essersi chiuso nell’opposizione ormai stantìa fra storia eventografica e storia strutturale.
La rivoluzione delle “Annales” è un fatto del secolo scorso che – insieme con altri apporti, fra i quali quelli della storiografia marxista anglosassone – ha prodotto un’esplosione di interessi, territori da esplorare, nuove configurazioni del sapere storico che fanno sì che il panorama storico che l’insegnante ha di fronte sia sterminato, multiforme e in buona parte sconosciuto. Parallelamente, hanno progressivamente perso di efficacia i lessici di base e le trame narrative con le quali, a partire dall’Ottocento, si cercava di rendere insegnabile una disciplina già allora complessa e, per converso, si è fatta insistente la domanda su quale storia insegnare, e quindi la ricerca di sintesi aggiornate.
La solitudine del docente
In secondo luogo, vi sono oltre quarant’anni di ricerche su tutto ciò che riguarda il lavoro dell’insegnante: manuali, programmi, difficoltà di ogni genere. Nella letteratura didattica degli anni ’80 era frequente la denuncia della “solitudine del docente”, costretto a risolvere da sé ogni questione didattica. In quarant’anni di lavoro, la ricerca internazionale ha prodotto studi e strumenti per ciascuno di esse. Oggi, un docente è “solo” solo se sceglie di esserlo o se non conosce questa corposa offerta di aiuto. E tuttavia, questa sembra essere la scelta della commissione di storia che, a differenza ad esempio di quella parallela di geografia, ha deciso di fare a meno del sapere storico-didattico, e ha optato per una figura professionale che sappia raccontare una storia lineare, avvalendosi della sua passione, di quel senso comune dell’insegnamento che si è cristallizzato nelle scuole nel corso degli ultimi due secoli, e parlando ai suoi allievi “dall’alto di una predella”, come auspicò Ernesto Galli della Loggia dalle pagine del “Corriere” (5 giugno 2018).
L’infosfera della storia
Il rischio di questa solitudine si fa pesante quando affrontiamo la lettura della seconda parte del libro, scritta da Marcello Ravveduto e dedicata ai rapporti fra public history e didattica della storia. Non è un capitolo marginale della formazione del docente. Mezzo secolo fa, il “sapere storico” era quello prodotto dagli studiosi. A questo doveva riferirsi il “sapere didattico”. Oggi, quel sapere storico veicola appena una minima parte delle conoscenze sul passato che circolano nella società e formano la pressoché infinita “infosfera storica”. Non è una questione di poco conto aver perso il monopolio della conoscenza del passato.
Se questo, forse, giustificava quella postura autorevole rimpianta da Galli della Loggia, la nuova situazione consiglia atteggiamenti diversi. Richiede che il docente sia avvertito della complessità e della varietà di questa cultura pervasiva; che la sappia sfruttare adeguatamente per il suo lavoro: impadronirsi delle nuove retoriche, interpretare la domanda di conoscenza nascosta nel successo della storia pubblica, distinguere conoscenze scientifiche e no.
Infine, in un punto dove didattica, storiografia e public history si intersecano, e cioè nell’analisi dell’invenzione della tradizione, richiede che ripensi l’oggetto stesso dell’insegnamento, dal momento che la trama di base tradizionale, quella che dal Vicino Oriente giunge ai giorni nostri passando per Grecia, Roma e Medioevo, non è altro che una genealogia inventata nell’Ottocento. Sono problemi enormi, irrisolvibili dai singoli insegnanti, necessitanti, perciò, del supporto di una robusta ricerca didattica.
Mediatori didattici
Nella terza parte del libro, scritta da Igor Pizzirusso, si entra nel grande supermarket dei mediatori didattici: giochi, laboratori con fonti di vario genere, da quelle musicali a quelle iconografiche, musei, libri-game, debate, meme, lezioni rovesciate e l’infinita serie dei prodotti digitali. Di ognuno di questi Pizzirusso fornisce una descrizione sintetica e precisa e, soprattutto, indicazioni per impadronirsi tecnicamente dello strumento. Pagine che non vanno lette come un romanzo, perché sono da consultare alla bisogna, ma che, nel loro insieme, ci restituiscono un quadro vivo dell’atelier di un insegnante di storia del XXI secolo.
Un libro e una commissione. Due modi opposti di concepire il medesimo lavoro: accettare la sfida e le incertezze della complessità o rifiutarla e cercare la salvezza nella semplicità di un tempo. Un impossibile ritorno alle origini, avrebbe detto Marc Bloch, non a caso l’autore più citato ne "Il primo libro di didattica della storia”.
© Riproduzione riservata