Storia di un art director gay e di un benzinaio nero che nella rossa Modena non trovano un appartamento. In una terra di contraddizioni, dibattito su quanto siamo razzisti e omofobi. Ma l’ostacolo vero è economico
Vivi in affitto? Quanto paghi e in che condizioni è la casa? Quali difficoltà hai incontrato per trovarla? I proprietari ti hanno mai invitato ad andartene perché non vogliono più affittare a canone concordato? Se sei proprietario di una casa in affitto, ci racconti la questione dal tuo punto di vista? Raccontaci la tua storia a lettori@editorialedomani con oggetto: “Cara casa”
La ricerca di una casa in affitto diventa spazio di conflitto sociale, dove razzismo e omolesbobitransfobia ma anche classe sociale (sì, esistono ancora) segnano i confini che determinano se potrai o no realizzare il desiderio – l’abitare non più come diritto, ma come privilegio – di avere un appartamento tuo o da condividere.
Siamo a Modena, nella provincia emiliana, città famosa per la Ferrari, Pavarotti e Bottura, amministrata da sempre dal centrosinistra (la sconfitta più grande: un ballottaggio nel 2014 contro i Cinque Stelle, poi vinto), dove sono nati i primi asili nido per permettere alle donne di lavorare e il 25 aprile si va tutti in piazza a cantare Bella Ciao, ma anche la città scelta dagli antiabortisti per la maratona di quaranta giorni di preghiera davanti all’ospedale pubblico e dove la dirigente di una scuola superiore ha censurato la foto di un bacio tra due maschi a un concorso scolastico. Terra di benessere e contraddizioni.
È qui che in pochi mesi si sono incrociate due storie: quella di un art director modenese, gay, in cerca di casa con il compagno, e di un benzinaio di origine tunisina, musulmano, residente in città da vent’anni. Entrambi discriminati dai proprietari degli appartamenti – vogliamo una famiglia tradizionale; non vogliamo neri e musulmani – scelgono di rendere pubblico l’accaduto, suscitando solidarietà ma costringendoci a porci una domanda: chi siamo?
Comunità non-inclusiva
Qualche tempo fa l’artista e attivista Fumettibrutti, in un’intervista, spiegava perché sarebbe più corretto parlare di non-esclusività invece di inclusività, sottolineando come il gruppo/comunità non debba escludere chi vuole entrare ma che nessuno può essere costretto a essere incluso. Un’idea profondamente giusta di comunità accogliente dove lo spazio pubblico dovrebbe essere democratico, ma qual è il confine con quello privato?
Se consideriamo che dietro il mercato immobiliare ci sono persone (le stesse che fanno parte della comunità) che gestiscono proprietà personali con l’obiettivo di ricavarne un vantaggio economico, possiamo presupporre che i criteri di valutazione si debbano basare sulla garanzia che la persona intestataria del contratto sarà in grado di rispettarlo e pagare l’affitto regolarmente e non su pregiudizi legati a origine culturale, provenienza geografica, genere o orientamento sessuale.
Viviamo nel mondo reale e sappiamo che (purtroppo) non è così: le discriminazioni incidono sul mercato degli affitti come su quello del lavoro e in altri mille aspetti della vita quotidiana di tantissime persone, e questo ci porta a pensare che, anche se ci immaginiamo diversi – perché la nostra bolla ce lo fa credere – in realtà siamo una comunità non-inclusiva.
Nei cortili delle scuole dei miei figli sento (ancora) genitori bianchi di origine italiana dire: «Quanti stranieri in classe», buttando un’occhiata alla lista dei cognomi della sezione, senza rendersi conto che ci sono bambini figli di coppie miste, terze generazioni, e di quanto sia anacronistico (e razzista) presupporre la nazionalità in base al cognome e al colore della pelle e di come sia umanamente orribile farlo con dei bambini che frequentano una scuola pubblica. Che ci piaccia o no, questo è il mondo reale.
Le cifre
Se provieni da una famiglia ricca o hai un lavoro ben retribuito e sei bianco, la casa non è un problema. Se invece non hai queste caratteristiche, devi affrontare un enorme sacrificio economico. I dati sul mercato degli affitti ci dicono che Modena è (inspiegabilmente) la quinta città più cara in Italia, con un costo medio per stanza singola – parliamo di una camera con un letto in un appartamento con altre persone – di 410 euro. A Milano, prima in classifica, costa 626 euro, a seguire Bologna con 482 euro, Roma con 463 euro e Firenze con 435 euro.
Un problema enorme per studentesse, studenti, lavoratrici e lavoratori fuorisede, il cui costo dell’abitazione impatta enormemente sul budget mensile e, per chi studia, anche sulla possibilità di potersi permettere l’università. Il costo medio di un appartamento intero, invece, è di circa 1.000 euro.
Il primo ostacolo, come dicevamo, è quello economico: quale tipo di abitazione posso permettermi? Condivisa (con quante persone? Il benzinaio di cui raccontiamo viveva con altri sei in una situazione di difficoltà) oppure un appartamento singolo? Tra le cause dell’aumento dei prezzi ci sono gli effetti distorsivi che gli affitti brevi hanno sul mercato immobiliare: faccio una rapida ricerca su Airbnb e scopro che sono 710 le case intere in affitto nel solo centro storico e adiacenze, e circa 275 le camere.
Al netto delle possibili zone falsate, i numeri sono comunque alti per un comune che ha poco più di 185mila abitanti, e questo fa precipitare la nebbiosa provincia emiliana nel dibattito presente in città come New York, Venezia e Barcellona, dove si riflette su come conciliare la cura della comunità con la valorizzazione turistica e il profitto economico dei singoli. In fondo, nella società capitalistica sono i soldi a decretare status sociale e possibilità di scelta, superando spesso anche le discriminazioni.
La scrittrice Sumaya Abdel-Qader, durante un’intervista, ha spiegato che il cognome “straniero” smette di essere un ostacolo quando accompagnato da una professione redditizia e riconosciuta, come il notaio o il medico, diventando, anche, immediatamente pronunciabile in modo corretto. In sintesi: la classe sociale batte il razzismo. E non è necessariamente una bella notizia.
Storie di illusioni
Verso la fine degli anni Settanta i miei genitori cercavano casa insieme e non erano sposati, durante le visite agli appartamenti evitavano di parlarne per paura di venire discriminati. Trovata la casa che volevano, hanno guardato la proprietaria e gli hanno detto: «Non siamo sposati», e lei ha risposto che non era un problema, perché era divorziata.
Se avessero trovato qualcuno che voleva applicare il concetto di “famiglia tradizionale”, la nostra vita sarebbe stata sicuramente diversa.
Nel 2016 una mia amica, italiana musulmana, velata, cercava un appartamento dove vivere da sola, senza trovarlo. Un anno prima c’era stato l’attentato terroristico alla redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, a cui ne seguirono altri, e l’islamofobia dilagava.
Alla fine ce l’ha fatta ma (probabilmente) solo perché amici bianchi hanno attivato contatti personali con proprietari bianchi. Costretti ad accontentarci del risultato positivo – gli amici, la solidarietà dopo un articolo di giornale, trovare chi ancora crede nella giustizia sociale – finiamo per non fermarci a riflettere su quanto faccia schifo il sistema. E per sistema intendo la società, che è fatta di persone, che siamo noi.
Le storie dell’art director e del benzinaio sono storie di illusioni: il primo ha pensato che, nel 2024, essere una coppia gay in Emilia-Romagna, in una città idealmente di sinistra come Modena, non fosse un ostacolo al trovare una casa, e il secondo ha creduto che vent’anni di lavoro stabile come benzinaio e migliaia di persone salutate con un sorriso – essere una brava persona, un lavoratore serio – fossero sufficienti a garantirgli il riconoscimento che merita nella comunità in cui vive.
Le loro storie sono anche la somma delle nostre illusioni: di quelli che credono di vivere in una società non-esclusiva solo perché non hanno la reale consapevolezza del proprio privilegio (bianchi, benestanti, cis, etero, spesso uomini) e di come fuori dalla propria bolla ci sia il mondo reale, fatto di quell’ignoranza e paura che porta tante persone a pensare che più diritti per tutti vadano a sottrarre i priori, come se essere accoglienti significhi perdere qualcosa, che sia il lavoro (ce lo rubano), oppure la casa (prima gli italiani) o la propria identità culturale (con gay e musulmani dove andremo a finire?).
È però anche la storia di chi ha deciso di usare la propria voce per lottare contro un’ingiustizia che riguarda tante altre persone, sbattendoci in faccia chi siamo – come comunità, come esseri umani – e dandoci la possibilità di aprire un dialogo e costruire. Di sperare di poter essere migliori di cosi.
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