Estate 1954. In uno storico stabilimento balneare di Napoli, una donna giovane e bella indossa un favoloso bikini a balconcino senza spalline e con culotte a vita alta. Fuori dalle regole, ma non inusuale se pensiamo alle dive di quell’epoca. Alcuni bagnanti, scandalizzati, chiamano i Carabinieri, altri, quelli più giovani, la difendono e urlano «Non portatela via, non portatela via». Ne nasce un parapiglia, a cui lei – straniera – assiste con aria divertita e un po’ sorpresa. I Carabinieri non possono far altro che registrarne le generalità, non c’è dolo né reato nell’andare in spiaggia indossando un bikini.

Ma non è questo il fatto in questione. Il fatto è che quella giovane donna è Edith Bruck, ebrea ungherese sopravvissuta ai campi di sterminio. Perché mettere in mostra il suo corpo, che – poco più che ventenne – ha già conosciuto le inaudite sofferenze della marcia della morte, le umiliazioni violente di un matrimonio fallito e di un finto matrimonio, il dolore profondo delle interruzioni volontarie di gravidanza? Che senso ha la vanità per un corpo che, seppur snello e atletico, è prova vivente degli orrori della Seconda guerra mondiale?

Ogni donna custodisce in sé un mistero insondabile. È legato certamente al suo essere biologico che consente a lei, e non ad un uomo, di portare alla luce la vita. Ma il mistero per compiersi ha bisogno di un mezzo, di uno strumento con il quale essere veicolato nella nostra dimensione temporale. Questo strumento è il corpo, forse la vera essenza di una persona. Mortificato, umiliato, mutilato dalle logiche del Male in nome di un Dio, di una Razza, di un’Idea, il corpo – fonte di vita – trova sempre il modo di sfuggire all’annientamento totale. Anche la logica nazista-fascista-comunista dell’annullamento dell’altro da sé non è riuscita nel suo intento. L’instancabile interesse con cui guardiamo al passato, la leggerezza con cui viviamo il presente e il timore con cui ci affacciamo al futuro ci preservano dall’estinzione.

La sua vita

ANSA

Nata ebrea, donna e povera nell’Europa degli anni Trenta, Edith Bruck – il cui destino era segnato – è l’umanità che resiste all’annientamento. Resiste alle leggi antiebraiche, alla ghettizzazione, alla deportazione. Resiste alla marcia della morte, che per lei fu doppia (da Bergen-Belsen a Christianstadt e da lì di nuovo a Bergen-Belsen). Resiste all’odio e all’indifferenza con cui viene accolta nel suo villaggio natale di ritorno dai campi di sterminio.

Resiste alla drammatica esperienza del viaggio in Israele, la terra promessa che per lei fu solo un incubo. Resiste anche al fatto che il suo eterno tatuaggio (interiore) di sopravvissuta le impedisce a vent’anni di avere una vita sessuale soddisfacente. Gli uomini tendono a spaventarsi di fronte a ciò che non comprendono. Non osano avvicinarsi, pensano di fare violenza a un corpo già oltremodo offeso.

Il compagno di vita, il poeta Nelo Risi, è l’unico che sa aprire la porta della gabbia a cui è condannata la sua esistenza, ma Edith non esce, non può e non vuole farlo, perché il tempo è rimasto lì, fisso, immobile, inchiodato a quel maledetto passato, perché gli abiti del testimone non si svestono mai, perché siamo noi – che non c’eravamo e che siamo venuti dopo – che non le permettiamo di indossarne altri. Meno che mai un bikini, emblema di scandalo e di rivoluzione, ma soprattutto simbolo di emancipazione e di femminilità, prima ancora che di vanità estetica.

Eppure Edith è libera in quella gabbia. Libera di vivere. Libera di parlare. Libera di scrivere. Libera di testimoniare. La vita trova sempre il modo di manifestarsi.

Il corpo e la parola

Il suo corpo lo dedica tutto alla parola: scritta e orale. In modo compulsivo partecipa alla creazione di versi e di racconti, come se la scrittura nascesse dal suo grembo. Scrive sempre tutto a mano. Irrefrenabilmente. Si dimentica di mangiare, di bere, di dormire, ma non dimentica l’orrore di cui è stata testimone oculare. E scrive in italiano Edith Bruck, una lingua che per lei è ossigeno, che veste il suo corpo di respiro e non la lascia nuda di fronte al dolore. Una lingua che è salvezza, perché le permette di raccontare non il tutto (l’indicibile non sarebbe tale se si potesse esprimere a parole), ma il massimo.

Nell’intimo suo più profondo l’italiano suona estraneo, eppure è con esso che riesce a rimuovere il freno della vergogna che lo scrittore ha con la sua lingua madre consentendole così di ri-emergere dall’abisso e di compiere il percorso di ri-costruzione della propria identità personale, annullata dalla disumanizzazione del mondo concentrazionario e dei regimi totalitari. L’identità è qualcosa che va al di là di confini e limiti.

E poi racconta. Incessantemente, da sessantadue anni spende parole e lacrime. Parlare coi ragazzi nelle scuole le permette di buttare fuori un po’ di fil di ferro di quella gabbia. Consapevole del valore morale e civile della testimonianza, porta avanti diligentemente la sua missione. Ne sopporta il peso, pur di arrivare al cuore e alla mente delle giovani generazioni.

Con cura e amore evita di gettare sterco e sputare mostruosità che non capiremmo. Per scuotere le nostre coscienze ci confida di aver provato attimi di felicità in quell’orrore, lampi di luce nei barlumi di umanità e negli intervalli di sofferenza. Sa che non si può raccontare solo il nero.

Sa che i giovani hanno bisogno di luci, di sicurezze, di speranze. E lei, da quella calda estate di settanta anni fa, è come se non avesse mai smesso di indossare il suo bikini, polvere color oro tra le crepe di un oggetto di ceramica, secondo l’arte del kintsugi.


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