Mentre la storica Anna Foa denuncia il suicidio militare (e morale) di Israele nell’aprire fronti di guerra in Medio Oriente, gli ebrei della diaspora fanno i conti con nuove ondate di antisemitismo. La testimonianza dei sopravvissuti alla Shoah resta un pilastro fondamentale per arrivare alla pacificazione
«Israele si sta suicidando. Ed è un suicidio militare, per i fronti aperti ma anche morale, per la sua incapacità di avere empatia per i morti di Gaza. È come se ci fosse un abisso in cui Israele sta precipitando». Sono parole amare che la storica Anna Foa ha pronunciato con fermezza nel corso di una puntata di Otto e Mezzo, quotidiano talk di approfondimento condotto da Lilli Gruber su La7.
Ebrea della diaspora (come lei stessa si definisce), Foa è stata quasi costretta a prendere carta e penna (come solo gli intellettuali possono e debbono fare) per dare al mondo una riflessione di senso sugli orrori del Novecento che tornano come mostri a popolare i nostri sogni. Il suo ultimo libro Il suicidio di Israele, è un amaro bilancio di ciò che sta accadendo in Medio Oriente da un anno.
L’avvertimento di Foa
E l’autrice, senza fare sconti, punta il dito proprio su quell’anima nera di Israele, colpevole di aver causato molte macerie alla nostra civiltà. Il cancro dell’antisemitismo, sempre più radicato nel cuore dell’Occidente, gli eccidi di massa come quello del 7 ottobre 2023, i morti civili e le distruzioni indiscriminate della guerra a Gaza in risposta al gesto terroristico di Hamas, hanno condannato l’intera area in un baratro di violenza senza fine.
C’è da dire che Netanyahu e il suo governo non se la passassero tanto bene neppure prima del criminale pogrom di un anno fa. Dissenso e manifestazioni di protesta chiedevano a gran voce le dimissioni di un governo del tutto incapace di garantire sicurezza ai cittadini di uno stato perennemente in bilico tra richieste di pace e necessità di asserragliarsi in uno spirito difensivo, per i nemici tutt’intorno.
Del sionismo, ovvero di quel grande progetto progressista nato dalla mente dell’austriaco Theodor Herzl che alla fine del XIX aveva immaginato uno stato ebraico in Palestina dove tutti gli ebrei potessero trovare rifugio dalle discriminazioni e dalle persecuzioni, ma in pace con gli arabi, non resta oggi più nulla. Dall’assassinio di Rabin il sionismo ha ceduto il passo alla crescita di un movimento oltranzista che vede nei coloni l’ultimo avamposto di uno stato fin troppo aggressivo nel rivendicare il suo ingiustificato suprematismo.
Il resto del mondo ebraico (a partire dalla diaspora americana fino a quella europea) deve invece fronteggiare il ritorno di un feroce antisemitismo che certamente si nutre di ciò che sta accadendo a Gaza e ora in Libano ma, contrariamente a quanto professato dalla propaganda di Netanyahu, non è la stessa cosa dell’antisionismo.
E alla fine del libro, tuona un avvertimento: non saranno le armi a sconfiggere il terrorismo islamico, ma il recupero di una politica dotata di visone. E a meno che non si voglia vedere risorgere Hamas dalle sue ceneri all’infinito, sarebbe bene recuperare l’idea che fu all’origine del sionismo, incarnata nell’uguaglianza dei diritti verso tutti i cittadini di Israele, da accompagnarsi però alla fine dell’occupazione dei territori e alla nascita di uno stato palestinese. Perché è vero che Israele ha il diritto di esistere in sicurezza, ma non può farlo continuando a calpestare i diritti dei palestinesi.
La testimonianza
È insomma un processo di pace che deve svolgersi sui tavoli delle trattative ma anche nelle menti delle persone. E bisogna farlo prima che gli ultimi testimoni della Shoah smettano di parlare e di raccontare l’orrore dello sterminio.
Liliana Segre piange per i morti a Gaza, ma nei cortei pro-Palestina viene vergognosamente definita “agente sionista”. Chissà se chi l’attacca sa di quando fu gettata nell’inferno dei campi di sterminio a 14 anni, con suo padre mandato al crematorio, appena arrivato nel lager.
Lei, tornata dopo aver attraversato l’Europa nella marcia della morte, in un mondo dei vivi incapace di accogliere e ansioso di dimenticare: un piede davanti all’altro con «migliaia e migliaia di esseri stremati che si trascinavano nella neve come automi. La strada disseminata di cadaveri, donne, uomini morti per lo sfinimento, per il freddo, o finiti dai soldati della scorta con una fucilata alla testa. Io non li guardavo, andavo avanti, un passo dopo l’altro, come ubriaca, perché volevo vivere, non volevo morire».
Gli storici si chiedono spesso cosa resterà quando anche l’ultimo testimone della Shoah non ci sarà più. E chi rimarrà a salvare il futuro di fronte agli incubi della storia che si riaffacciano nel nostro presente. Non è un caso che sia stata proprio Segre a proporre anni fa l’istituzione di una commissione parlamentare per il contrasto a fenomeni di intolleranza razziale, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza che navigano soprattutto sul web sotto forma di hate speech.
Si potrebbe dire che di fronte a una cattiva memoria (o a scarsi ricordi) ci si può salvare solo aggrappandosi a una buona storia. Non solo (o non tanto banalmente) per evitare di ripetere gli errori del passato, ma perché gli uomini hanno il dovere di vivere seguendo i sentieri che portano al peso della coscienza.
Voltarsi dall’altra parte, nel segno dell’indifferenza, o scegliere l’umanità di un gesto (anche piccolo) per essere riaccolti nel mondo degli uomini: sono differenze non di poco conto che i sopravvissuti alla Shoah hanno sopportato nell’anima e nella carne, nei giorni della loro cattura, costretti a resistere nei lager. Soprattutto quando al momento del ritorno si ritrovarono «rinati, liberi, dispersi nel mondo dei vivi», come ha dichiarato la poetessa sopravvissuta Edith Bruck.
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