Nota vagamente a tutti, la Bibbia è in realtà una sconosciuta, sia pure illustre. Soprattutto in Italia, cattolici praticanti compresi e non escluso il clero, stando almeno a quanto si sente predicare in chiesa. Eppure da oltre mezzo secolo dall’istituzione ecclesiastica non sono stati risparmiati gli sforzi per tornare finalmente ai testi biblici. Nella prima età moderna la necessità di contrastare i protestanti – che spinse la chiesa di Roma a scoraggiare, se non addirittura a proibire, la lettura della Bibbia, da loro assolutizzata – spiega in parte questa situazione.

Ancora più responsabile nei diversi paesi di antica tradizione cristiana, è però, oltre ovviamente la secolarizzazione dilagante, l’usura confessionale – e normalmente moralistica – della Scrittura stessa. Sull’ignoranza è così prosperata una selva di pregiudizi duri a morire, soprattutto nei confronti della Bibbia ebraica.

«Quando si evoca il Dio dell’Antico Testamento tra non specialisti risorgono immediatamente una serie di idee negative» scrive il biblista protestante Thomas Römer in Dieu obscur (Labor et Fides). Il libro, riedito dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, spiega con chiarezza – e con un efficace sottotitolo a sensazione («sesso, crudeltà e violenza nella Bibbia ebraica») – l’origine e il senso di questa raccolta di libri, davvero intriganti e complessi.

Idee prive di fondamento 

L’autore vuole mostrare, riuscendoci magnificamente, l’inconsistenza di queste «idee negative», tra le quali domina quella «di un dio primitivo, caratterizzato dalla collera, la gelosia, l’arbitrarietà – e le femministe vi aggiungerebbero senza dubbio il machismo». Per di più a «questo Dio che non sembra in nulla “politicamente corretto”» si contrappone ancora troppo spesso da parte cristiana il Dio del Nuovo Testamento, che al contrario «sarebbe impregnato d’amore, di compassione e di perdono».

Per quanto riguarda la Bibbia ebraica non si tratta però di una novità. Già ai primi tempi del cristianesimo lo gnosticismo non amava l’Antico Testamento, considerato l’espressione di una fase superata e contrapposta alla vera «conoscenza» – in greco gnósis (da cui il termine moderno che raggruppa queste correnti religiose) – riservata a pochi eletti.

Secondo il dualismo gnostico il dio descritto nelle Scritture ebraiche era infatti il Demiurgo creatore di un mondo cattivo destinato alla distruzione finale insieme a gran parte degli uomini (eccettuati naturalmente gli gnostici). Questa figura divina, rozza e ignorante, non conosceva infatti il sommo Dio, inconoscibile, e di conseguenza quanti gli si ribellavano – come il serpente tentatore all’inizio della Genesi e il fratricida Caino – erano in realtà figure positive.

Ancora più estremista era stato Marcione che, a metà del II secolo, aveva rigettato in blocco l’Antico Testamento e buona parte dei libri poi entrati a far parte del Nuovo Testamento, scritti tutti da ebrei ed effettivamente fitti di riferimenti alla Bibbia ebraica. Dei libri neotestamentari accettava soltanto – ma alleggeriti e purgati – le lettere di san Paolo e il vangelo secondo Luca, secondo lui i meno vicini alle Scritture giudaiche.

L’operazione di Marcione fu subito respinta e venne emarginata dai cristiani, ma la diffidenza e l’ostilità nei confronti delle Scritture ebraiche non sono mai morte. Nel 1774 il teologo Johann Salomo Semler scrive che «come regola generale i cristiani non hanno accesso alla conoscenza di Dio attraverso i libri dell’Antico Testamento ma solo grazie alla dottrina perfetta di Cristo e dei suoi apostoli». Più in là si spingono nel 1830 Schleiermacher e, un secolo più tardi, Adolf von Harnack, il grande storico autore di una magistrale ricerca sulla teologia di Marcione.

Se pure di assoluto rilievo sul piano scientifico, non pochi studi condotti sulle Scritture ebraiche soprattutto nella Germania di tradizione protestante sono inficiati dall’ombra di un radicato antigiudaismo cristiano: da Herder a Gerhard Kittel e fino a Rudolf Bultmann, che comunque molto hanno contribuito alla conoscenza dell’ebraismo e del cristianesimo antichi. A mettere in luce questo aspetto, sia pure con qualche esagerazione, è stato Anders Gerdmar.

Nel suo importante studio intitolato Bibbia e antisemitismo teologico (Paideia) il teologo svedese ha sottolineato come in parte queste ricerche abbiano mirato a separare Gesù e il primo cristianesimo dalle radici ebraiche fino a volerlo «degiudaizzare», favorendo così di fatto l’ostilità antiebraica del razzismo genocida nazista.

Entrare nella varietà

Dopo la Shoah la situazione è ovviamente cambiata e l’oscillazione del pendolo sta andando nella direzione contraria, restituendo autonomia e valore alla Bibbia ebraica. Ma ha ragione Römer a scrivere che «tutto quello che può sembrare oscuro o incomprensibile nei testi dell’Antico Testamento viene cancellato o troppo rapidamente integrato in letture apologetiche e armonizzanti».

Molti luoghi comuni sono smentiti da una lettura della Bibbia ebraica che invece voglia rispettare la composizione e la varietà dei singoli testi. Inoltre, non bisogna dimenticare che la loro storia viene ricostruita da ipotesi soggette a revisioni continue. I risultati storici sono di grande interesse, come da un secolo e mezzo la ricerca – da Julius Wellhausen fino a Jan Assmann – ha mostrato, analizzando in particolare il nucleo fondamentale della Scrittura ebraica: i cinque libri della Torah, cioè il Pentateuco.

A esserne coinvolta è la storia della stessa evoluzione religiosa dell’ebraismo, passato da una sorta di politeismo iniziale alla fede monoteista. L’affermazione del monoteismo ebraico – scrive Römer – appare «quasi sempre legata a un movimento contestatore, che si oppone non solo alla religione politeista, ma anche alle strutture politiche che vi sono correlate». Muta anche l’immagine di Dio, che viene intuita e descritta da differenti circoli ebraici in fasi storiche diverse.

Decisiva è la frattura della conquista babilonese di Gerusalemme e della distruzione del Primo tempio, quello di Salomone, nel 587 prima dell’era cristiana. Nella storia ebraica è un trauma di proporzioni immani e dalle conseguenze paragonabili solo a quelle della fine del Secondo tempio, che sarà devastato e dato alle fiamme dalle legioni di Tito sei secoli più tardi.

La prima catastrofe, che comporta l’esilio a Babilonia dei capi ebraici, è seguita però dall’età persiana, più o meno tra il 500 e il 350. È questa un’epoca fondamentale per la Bibbia perché proprio allora viene costituita la Torah «come documento ufficiale del giudaismo». Ma questa collezione di libri – spiega il biblista svizzero che è il primo straniero chiamato a guidare il Collège de France – «conserva tutta la diversità dell’esperienza del popolo ebraico con il suo Dio».

Dio è maschio? Esige sacrifici umani come apparirebbe da quello richiesto ad Abramo del figlio Isacco? È un despota e una divinità che vuole la guerra? Ancora, è legalista e sessuofobo? Violento e vendicatore? E da dove viene il male?

Römer risponde a tutte queste domande analizzando i testi biblici senza edulcorarli e ricercandone invece il contesto storico che li ha originati. Il metodo corretto scelto dallo studioso protestante dissipa in parte le tenebre di questo «Dio oscuro», ma soprattutto chiarisce che i testi biblici «vogliono mettere in guardia i loro destinatari da concezioni troppo umane di Dio e insistere sui limiti dei discorsi teologici».

Un Dio che interroga

Ineludibile per i cristiani resta la questione del rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Anche se in proposito bisogna ricordare che è in atto all’interno dell’ebraismo un interesse nuovo per le Scritture cristiane, che s’innestano ovviamente su quelle ebraiche.

Le rispettive letture rimarranno diverse, ma «le due confessioni riassumono l’esperienza di un Dio che è quello – scrive Römer – di una liberazione definitiva, dalla schiavitù, dall’alienazione, dalla morte e dal peccato», un Dio che non può essere costretto nei limiti di teologie umane e continua a interrogare ebrei, cristiani e l’umanità intera.

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