Giulia Cecchettin è stata uccisa quasi un anno e mezzo fa. Il giorno dopo il ministro Valditara aveva promesso di intervenire istantaneamente per far entrare nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione all’affettività, così battezzata per il disagio che a chi governa mette la parola “sessualità”.

Nelle linee guida Unesco si chiama semplicemente Sexuality education, mentre il percorso alla conoscenza del corpo e alla relazione in base a un paradigma olistico si chiama Comprehensive sexuality education. Sappiamo che l’inserimento dell’educazione all’affettività non è stato affatto tempestivo, sia perché non era chiaro come impostare la nuova materia, sia perché, al di là delle dichiarazioni a favor di telecamera, le idee e le modalità di gestione non erano state ancora perfezionate.

Da vent’anni la politica italiana si rivela incapace di portare nelle classi questa disciplina, limitandosi ad attivare percorsi a macchia di leopardo, con una forte discrepanza tra Nord e Sud, molto più indietro nell’avviare iniziative simili. Ancora oggi meno del 50% degli studenti affronta un percorso di educazione all’affettività, in Meridione soltanto il 37%. Nell’Unione Europea sono rimasti pochissimi paesi a non includerla nell’iter formativo di bambine e bambini e di ragazze e ragazzi e l’eccezione più vistosa è senz’altro l’Italia. Fa così una certa impressione sapere che in Svezia la disciplina è presente dal 1955, in Germania dal 1968.

E lascia l’amaro in bocca constatare che tanto i bambini quanto i ragazzi giudicano l’educazione affettiva e sessuale un argomento che suscita voglia di imparare e che il luogo ideale dove apprendere sia ritenuto la scuola, ben più della famiglia e di un informale dialogo tra pari.

Mesi fa, sulle colonne del Corriere della Sera, cercavo di analizzare lo stato dei lavori chiedendo indirettamente al ministro dell’Istruzione a che punto eravamo con l’educazione all’affettività. La situazione di stallo mi fa credere che valga la pena insistere. Questa volta lo faccio partendo da un episodio personale, che però rispecchia bene la situazione generale. Mio figlio ha otto anni, frequenta il terzo anno di scuola primaria. La sua classe non è coinvolta nelle ore di educazione all’affettività: è troppo presto, mi hanno risposto docenti ed esperti esterni, senza che però nessuno sapesse dirmi perché è troppo presto. Le indicazioni Unesco e dell’Oms, infatti, dicono esattamente il contrario: bisognerebbe iniziare addirittura in età prescolare perché una sessualità sana, una capacità di relazione appropriata e i valori del rispetto e dell’ascolto si radicano subito nell’essere umano e non è pensabile abbattere gli stereotipi né i pregiudizi né ambire a una parità di genere, se non si comincia dall’infanzia. Invece ancora troppi bambini della primaria sono ancora esclusi dall’educazione all’affettività.

Mia figlia, invece, ha dieci anni e frequenta la quinta nello stesso istituto di suo fratello. Ha appena finito il percorso, che ha cominciato soltanto poche settimane fa: 4 ore dedicate alla gravidanza, 2 allo sviluppo femminile e maschile e 2 all’amicizia. Il tempo dedicato alla materia, ad oggi, pare pressappoco di questa entità: 8 ore in 5 anni, “concentrate” a tre mesi dalla fine del ciclo scolastico. Gli incontri sono stati tenuti da personale esterno alla scuola, rispettivamente un’ostetrica, un’educatrice e due psicologhe. Nessuna di loro sa in che modo continuerà il percorso alla scuola media, affermazione che fa capire come, se da un lato si punta a creare una disciplina trasversale, dall’altro i cicli scolastici restano compartimenti stagni: non si parlano e ciascuno si organizza per sé.

Se penso ancora all’esperienza di mia figlia non ho nulla da obiettare sui contenuti. Ma strutturare una materia scolastica è una cosa diversa dall’offerta di quattro brevi incontri. L’educazione all’affettività, così predisposta, assume una dignità ibrida: sembra un percorso che la scuola offre piuttosto che una disciplina che accompagna lo studente fino alla fine. Che status vogliamo darle?

Esiste un programma o solo generiche linee guida? Sono previste delle modalità di restituzione?

Non per un desiderio di valutazione col sistema canonico – proprio no – ma perché si potrebbe utilizzare la restituzione secondo modalità pedagogiche innovative, per rimuovere ostacoli o stimolare comportamenti migliorativi, ad esempio.

Un’ultima domanda: abbiamo garanzie che l’educazione all’affettività resterà nell’offerta formativa della scuola italiana o, visto che ha dei costi, è a rischio di essere ridotta o cancellata alla prima manovra economica? È importante saperlo perché parlare di sessualità e affettività – soggetto o percorso che sia – influisce sul contrasto alla violenza di genere, coinvolge i servizi educativi di una comunità e gli insegnanti curricolari, che meriterebbero una formazione a riguardo. Solo con più formazione pedagogica, infatti, avranno la piena possibilità di entrare in sintonia e stabilire un rapporto di fiducia con lo studente. Senza investimenti resteremo al solito stadio primordiale di iniziative più improvvisate che meditate, lamentandoci che non hanno ricadute sulla media e lunga distanza, fatto non imputabile alla scuola ma esclusivamente a scelte politiche pericolose.

Se per queste domande ci sono risposte varrebbe la pena condividerle e comunicarle meglio. Se le risposte, dopo così tanto tempo, ancora non ci sono, bisognerebbe avere l’onestà di non fare proclami né di imbastire soluzioni affrettate né di stare alla finestra mentre, come accade in questi giorni, il numero dei femminicidi continua drammaticamente a salire. In questa materia che parla di conoscenza del proprio corpo e di rispetto dell’altro, delle proprie pulsioni e dei propri desideri, della decostruzione di pregiudizi e di pari dignità, non possiamo permetterci altro che risultati eccellenti per ogni singolo alunno.

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