- In molti percepiamo la mancanza di un altrove fisico e mentale che però immaginiamo come il luogo dove dovremmo stare. Non si tratta per forza del desiderio di un viaggio all’altro capo del mondo, ma di una mancanza strutturale che produce un disagio strisciante e diffuso.
- L’agire quotidiano, però, ci induce a rimuovere l’altrove dall’immaginario, a ingabbiare l’extra-ordinario nell’ordinario, a ripiegarci sul presente e a restare chiusi dentro un guscio individuale molto robusto.
- L’antidoto a questo disagio diffuso si condensa in una parola: avventura, quell’esperienza (un viaggio, un incontro erotico, la scoperta di un’opera d’arte, una gioia intensa condivisa con gli amici…) che rompe gli schemi e ci apre all’imprevedibile.
Quando arrivò a Londra nella primavera del 1790 dopo quattro mesi di vagabondaggio per l’Europa, Alexander von Humboldt aveva vent’anni. Insieme all’amico Georg Forster rimase estasiato dallo spettacolo che offriva il Tamigi: il fiume brulicava di vascelli all’ancora carichi di spezie delle Indie orientali, di zucchero dei Caraibi, di tè proveniente dalla Cina, di legname dalla Russia...
Una «foresta nera di alberi», annotò nel diario, che fece divampare in lui il desiderio di viaggiare in posti remoti, di andarsene via, lontano dalla Prussia fredda e arida, e dal controllo della madre, opprimente e priva d’amore, per immergersi finalmente nell’ignoto.
Oltre le frontiere
Da ragazzo aveva sognato ammirando le palme tropicali al giardino botanico di Berlino e divorato i diari di James Cook e Louis-Antoine de Bougainville, gli esploratori che circumnavigarono il globo. E da anni si abbeverava ai racconti di Forster, che con Cook aveva navigato per davvero.
Bramava l’altrove, Alexander. Voleva conoscere tutto, superare ogni frontiera. Il cuore e la sua sete di sapere lo spingevano verso i tropici, le vette andine, i ghiacciai e i deserti infuocati. La sua fantasia veleggiava tra le isole del Sud Pacifico. E ancora non sapeva che, tra i viaggiatori e gli scienziati della natura, lui sarebbe stato il più grande di tutti.
Per lungo tempo l’influenza castrante della madre lo avrebbe obbligato ad accettare una vita stanziale e piuttosto grigia come funzionario della società mineraria prussiana. Solo la morte della madre, nel novembre del 1796, quando Alexander aveva ventisette anni, lo avrebbe sciolto da ogni vincolo e reso ricco, liberando l’esploratore più temerario che la scienza abbia mai conosciuto: l’uomo che valicando ogni frontiera superò il dualismo uomo-natura, gettando le basi per l’ecologia integrale dei nostri giorni.
L’assenza dell’altrove
L’intelligenza, la passione e l’energia fuori dal comune di Alexander von Humboldt lo rendono un termine di paragone complicato. Ma quella sua difficoltà a partire verso l’altrove, che pure desiderava così tanto, ripiegando su un lavoro che non amava per non turbare la quiete famigliare, può illuminarci su un tratto importante della condizione umana nel nostro tempo.
Quel languore giovanile, sofferto prima di iniziare una straordinaria seconda vita, quella strana nostalgia per qualcosa che non si è ancora vissuto, che si teme di non poter raggiungere mai e che in fondo non si sa nemmeno che cosa sia... Quell’idea, insomma, che la vita vera stia da qualche altra parte – ma certamente non qui, non adesso, non dove ci troviamo a lottare con i problemi quotidiani –, la riconosciamo.
In molti percepiamo la mancanza di un altrove fisico e mentale che però immaginiamo come il luogo dove dovremmo stare. Non si tratta per forza del desiderio di un viaggio all’altro capo del mondo, ma di una mancanza strutturale che produce un disagio strisciante e diffuso.
Una vita altrui
Il blocco che ci impedisce di colmare questo vuoto è costituito da tre aspetti fondamentali che oggi caratterizzano l’esistenza: viviamo schiacciati sulla dimensione presente, uno short-termism esistenziale ci obbliga a rincorrere i tanti ruoli che incarniamo ogni giorno e non ci lascia energie per ampliare il nostro orizzonte temporale; siamo soggetti a una tirannia dell’Io che ci rende individualisti, narcisisti, competitivi e sempre concentrati su un tornaconto personale che ha poco a che fare con le nostre aspirazioni più profonde; attribuiamo un’importanza eccessiva alle aspettative che gli altri nutrono nei nostri confronti, online e offline inseguiamo l’approvazione o forse l’invidia di un pubblico invisibile, persuasi che la felicità consista nel mostrarsi migliori degli altri in una gara che non cessa mai: ossessionati dalla valutazione delle nostre performance in ogni ambito, finiamo per essere assai conformisti e, parafrasando Emmanuel Carrère, per vivere una vita che non è la nostra.
Cattive maestre
Il disagio che deriva dalla pressione di questi tre fattori è grande, spesso ci toglie il fiato ma rimane impalpabile, quasi impossibile da mettere a fuoco per poi provare a liberarcene. Talvolta qualche segnale prezioso lo captiamo: ci succede ad esempio di sospettare che, vivendo in tal modo, ciò che ci circonda non sia reale ma soltanto una scenografia posticcia, esattamente come accade al giovane intellettuale militante Hugo Barine protagonista de Le mani sporche di Jean-Paul Sartre.
Hugo non sopporta più di vivere in una bolla di parole e idee astratte che lo isolano dalle cose vere e aspira solo a passare all’azione, ad ogni costo. Ci può accadere di percepire, seppure in modo vago, che per realizzare noi stessi dovremmo prendere il largo e attraversare il mare, anche a costo di rischiare la pelle.
E talvolta intuiamo, come il grande Michel de Montaigne nel XXIII dei suoi Saggi, che le nostre abitudini sono «cattive maestre», anche se poi quando si tratta di provare a cambiarle, indugiamo. Sotto il giogo dell’abitudine tiranna che ci impedisce persino di guardarla negli occhi, finiamo infatti per rimuovere quel disagio e non sentiamo più il vuoto che crea né quel languore che, se sapessimo ascoltarlo e assecondarlo, ci spingerebbe forse a partire o a rivoluzionare la realtà che abbiamo intorno.
Dimenticare l’altrove
L’agire quotidiano, insomma, ci induce a rimuovere l’altrove dall’immaginario, a ingabbiare l’extra-ordinario nell’ordinario, a ripiegarci sul presente e a restare chiusi dentro un guscio individuale molto robusto, che costruiamo ammassando confusamente le tante performance da realizzare in àmbito professionale e nella vita privata, gli interessi materiali che mettiamo sempre al primo posto e tutte le paure che crescono insieme all’incertezza di cui la nostra epoca è pervasa.
Un guscio che spesso si consolida saldando dimensione individuale e politica: il narcisismo individualista ha un’affinità sotterranea ma essenziale con i sovranismi e i nazionalismi contemporanei che offrono riparo sotto l’ombrello di un Noi forte, aggressivo, escludente, che tende a semplificare la complessità e a liberarci dal faticoso esercizio del pensiero critico. Questo guscio personale e politico ci protegge, insomma, ma restringe i nostri orizzonti e sopprime sul nascere il desiderio dell’altrove.
Avventura
L’antidoto a questo disagio diffuso si condensa in una parola: avventura, quell’esperienza (un viaggio, un incontro erotico, la scoperta di un’opera d’arte, una gioia intensa condivisa con gli amici…) che rompe gli schemi, ci apre all’imprevedibile, è eccentrica rispetto al corso dell’esistenza ma misteriosamente connessa al vero centro del sé e in grado di illuminare le nostre reali inclinazioni, come spiega Georg Simmel.
«Una tensione che inarca la vita» e ci spinge a uscire dai confini del certo che nasconde ciò che siamo, per andare incontro alla vita e ai suoi pericoli, come fecero gli Ateniesi uscendo fuori dalle mura cittadine per tutelare la libertà e la isegoria, cioè l’eguale di diritto di parola nella polis, minacciate dal dispotismo persiano nella narrazione di Erodoto; o come fece il leggendario reporter polacco Ryszard Kapuściński che si gettò nell’ignoto con le Storie di Erodoto nello zaino; o come provò a fare Platone avventurandosi per mare verso Siracusa, nel tentativo di impegnarsi in politica ispirando il governo di quella città; o come fece la viaggiatrice e scrittrice svizzera di origini russe Isabelle Eberhardt, che fingendosi beduino bruciò la sua vita e il suo talento inseguendo i misteri del deserto nordafricano; o come Corto Maltese, il gentiluomo di fortuna creato da Hugo Pratt, il cui grande amico e collaboratore Lele Vianello è autore dell’acquerello in copertina del mio libro; o come l’Ulisse di Kazantzakis che, a differenza dell’eroe omerico, una volta rientrato a Itaca spezza il cerchio chiuso del nostos e con gli amici riprende il mare infinito.
Nella consapevolezza che solo avventurandosi oltre ogni confine, fisico e psicologico, sarà possibile attingere a quel lampo di luce che, come nella Tempesta di Giorgione, illumina per un istante l’essenza inafferrabile del nostro stare al mondo.
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