La felicità a Sanremo non c’è più. O meglio c’è, ma non si trova (più) sul palco dell’Ariston. In un’atmosfera depurata dall’inatteso, eventualmente dal rischio delle gaffe, oltre alla prevedibilità sembra aver pervaso il clima pure una certa sfiducia. Quella sfiducia che affiora nei testi dei concorrenti: c’è Fedez che fa i conti con l’esperienza della depressione dicendo di vedere nero «pure nel cielo/Vetri rotti schegge negli occhi» e nel bicchiere mezzo pieno «due gocce di veleno», Lucio Corsi spiega che «però non sono nessuno/Non sono nato con la faccia da duro/Ho anche paura del buio/Se faccio a botte le prendo», Noemi confessa «ti stringerei fino ad odiarti ma lo so/Che non è facile, lasciarsi perdere, serenamente».

Decisamente non è un bagno di felicità, la fiducia nel futuro scarseggia e la serenità nella propria pelle non risulta proprio pervenuta. Anzi, è una chiara presa d’atto della paura che si può incontrare, che si annida in tante forme diverse sulle strade di ciascuno.

La ribellione in una sfilza lunghissima di magoni è stata martedì sera quella di Jovanotti: parte da fuori dall’Ariston con l’energia dei Rockin’ 1000 che lo accompagnano nel suo Ombelico del mondo e prosegue il medley mentre brillante e tutto vestito d’oro entra nel teatro e guadagna il palco, dove porta – con tutti i suoi 58 anni, parecchi di più della maggior parte dei concorrenti in gara – una goccia d’ottimismo. E lo confessa con un certo candore, che a lui in fondo piace tutto, «pure la vispa Teresa», pure tutte e 29 le canzoni in gara quest’anno, e se a qualcuno non vanno a genio peggio per lui. L’approccio sopra le righe che lo ha sempre caratterizzato si è cristallizzato in una fiducia ferrea nel fatto che le cose si sistemeranno e non c’è da aver paura. Una visione del mondo.

Di paura ha parlato anche Willie Peyote in conferenza stampa. Gli hanno chiesto se si sente solo con il suo testo politico, praticamente l’unico, e perché gli altri artisti non hanno scelto l’impegno quest’anno.

Peyote ha tirato in ballo l’individualismo: «A me manca il senso di collettività in cui sono cresciuto e che credo vada difeso. I tempi in cui viviamo ci portano a difendere l’orticello in cui viviamo. La paura ci fa stare da soli».

A non stare da soli, paradossalmente, riescono i fan che restano fuori dall’Ariston. Quasi tutti i concorrenti hanno la loro location brandizzata in cui chi li cerca può trovarli. Il Villain cafè, il food truck di Tony Effe, i bar di Achille Lauro e La farmacia dell’amore di Clara. Tutti posti che attirano nugoli di persone ansiose di uno sguardo sul beniamino, entusiaste di fronte alla possibilità di ottenere un selfie. Dentro quei gruppi, di solitudine non ce n’è, forse neanche di paura, in attesa che l’eroe di turno si rivolga nella direzione giusta per uno scatto rubato. C’è una specie di comunità, il senso che si è lì tutti per lo stesso scopo. Che poi duri poco o sia una gioia effimera non importa.

Perché come dice Dario Brunori, imbracciando la chitarra e auspicando che le canzoni di Sanremo siano tutte canzoni contro la paura, «ma non ti sembra un miracolo/Che in mezzo a questo dolore/E tutto questo rumore/A volte basta una canzone/Anche una stupida canzone/Solo una stupida canzone/A ricordarti chi sei».

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