Faro, caffetteria specialty aperta nel 2016 a via Piave, è stata certificata tra le cento migliori in tutto il pianeta. Un riconoscimento frutto del bagaglio dell’esperienza che Dafne, Dario e Arturo hanno raccolto negli anni. Con un obiettivo: diffondere cultura mangiando e bevendo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
«Non è solo un riconoscimento per chi lavora nella filiera del caffè. Ogni singolo cliente ha contribuito a questo premio». Dafne Spadavecchia sembra far fatica a pensarlo, figurarsi a dirlo. Svegliarsi con accanto la certificazione di ventiseiesima caffetteria al mondo («Al mondo! Hai idea di quanto è grande?») non accade tutte le mattine. Quando insieme a Dario Fociani e Arturo Felicetta, i soci con cui nel 2016 ha aperto Faro, si è imbarcata per Madrid per partecipare al The World’s 100 Best Coffee Shops, la consapevolezza di potersi togliere una soddisfazione era proporzionata alla difficoltà di imporsi davanti a quattromila aziende. Speranza e realtà convivevano dentro di loro.

La sana sfacciataggine che serve in certi contesti era trattenuta dall’umiltà che li accomuna. «C’era una prima trance, dalla centesima alla cinquantesima posizione, in cui le caffetterie vincitrici venivano proiettate su uno schermo. Le restanti, a botte di dieci, venivano invitate sul palco». Fino alla quarantesima non accade nulla. La speranza aumenta. Arrivati alla trentesima, stessa cosa, con la differenza che la modestia ormai può poco o niente sulla sfrontatezza. «Quando sei tra i primi trenta, poi vuoi stare tra i primi venti», scherza Spadavecchia. «Ovviamente va benissimo così. Non voglio fare la finta modesta, ma ci rendiamo conto di avere tanti limiti a livello di paese che si riscontrano poi nell’offerta. Ma Roma ti permette di avere un’identità».
Quella identità ha portato Faro da via Piave, nel rione Sallustiano, in cima al mondo. Davanti ha solo altre venticinque caffetterie. Alleate e mai rivali. «Il nostro è un mondo dove c’è tantissima individualità. Anche questa è stata una competizione. Ma a differenza delle altre, persone con culture differenti si sono strette le mani. E nella stretta di mano c’era sempre uno complimento, un elogio, un “passo a trovarti”. Ed è bello». Nonostante si stiano cominciando a frastagliare un po’ ovunque, «noi caffetterie specialty siamo una nicchia, dovremmo lavorare in sinergia. Mostrare il proprio lato all’esterno ti permette di crescere».
«Fare bene del bene»
A portare Faro alla cerimonia che si è tenuta nella capitale spagnola in occasione del Madrid Coffee Festival è stata una giuria. Ce n’erano una per ogni area del pianeta, divise in America, Asia, Europa e Oceania. A presiedere quella della caffetteria romana era l’olandese Dack Coffee Roasters, un’istituzione nell’ambiente. La selezione comprendeva ogni aspetto e la qualità del caffè è solo un aspetto della valutazione. L’ambiente, l’innovazione, la sostenibilità, la competenza, la cura del cliente. Tutto questo conta, eccome. Specie se e qui entriamo nel campo delle diffidenze che circondano ancora lo specialty – la cifra sullo scontrino sembra fuori contesto per una colazione. Ma l’etica, altra componente vivisezionata dalla giuria, ha un costo. L’attenzione va tenuta altissima dal primo all’ultimo passo, affinché tanto il coltivatore quanto il cliente siano soddisfatti. Il caffè, come il cibo, è cultura. Un concetto difficile da spiegare, ancor di più da concretizzare. Per capirlo meglio Spadavecchia suggerisce il libro The World Atlas of Coffee, di James Hoffmann, anche lui presente alla fiera di Madrid. «Chiunque voglia stare in questo settore, deve passare da qui», sentenzia.
Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è del caffè che vuole parlare. «Potrei stare qui per ore a raccontarti dell’importanza della filiera, di quanto sia interessante incontrare certe persone che ci lavorano». Piuttosto vuole ricordare Filippo e Cristina, che nel 2019 hanno deciso di festeggiare il loro matrimonio da Faro, dove hanno firmato anche il contratto della loro casa. Come loro, tanti altri clienti si sono sentiti in dovere di complimentarsi per un traguardo a cui sentono di aver contribuito. Senza sentimento in quello che si fa, è puro business.
«Alcune volte penso come sia stato possibile creare una comunità del genere», si chiede Dafne sapendo già la risposta. «Facciamo un qualcosa di molto importante per il nostro benessere, come bere e mangiare, e per questo abbiamo deciso di trattare il caffè come una materia prima per poi arrivare a trattare anche le altre. Il cibo è la cosa più emozionale di tutte. La lingua dei cinque sensi è comprensibile a tutti. Mi hanno insegnato che non esistevano confini mentre adesso mi chiedono di tornare indietro. Non è possibile. Questo lavoro ne è la dimostrazione. Vogliamo fare bene del bene: alla fine della fiera, è questo il senso di tutto».
Il risultato è certificato su un pezzo di carta che Dafne, Dario e Arturo mostrano con l’orgoglio di chi, forse, sapeva da sempre di poter offrire qualcosa. L’apertura di Faro è arrivata in età adulta, con alle spalle un bagaglio di esperienza su cui scommettere tutto. Un’investitura frutto di ciò che hanno raccolto in giro per il mondo per sperimentarlo in una città sotto certi aspetti respingente ma democratica. «Con Dario ci siamo conosciuti a Londra. Mi ha fatto bere il primo caffè specialty nel 2013. Era un Kenya lavato. Mi disse che voleva portarlo a Roma. Lo assaggio. Lo guardo. E gli chiedo: ma sei sicuro che ‘sta roba funzionerà?».
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