- Quel giorno tu sarai (il titolo originale e assai più calzante è Evolution) è il film-evento che esce in sala con Teodora il 27 gennaio, giorno della memoria. Per Scorsese riesce a «drammatizzare il movimento stesso del tempo, il modo in cui ricordiamo e il modo in cui dimentichiamo».
- In coppia come sempre con la sceneggiatrice Kata Wéber, Mundruczò affida ai suoi esasperati, virtuosistici piani sequenza il compito di comunicare l’esperienza di un trauma che dai campi di sterminio proietta tentacoli cupi sulla Germania di oggi.
- Tre episodi e tre epoche, legati dal filo rosso dei sopravvissuti. C’è un ottimismo fin troppo edificante in questo incontro tra le vittime dei nuovi razzismi.
A raccomandarlo basterebbe, oltre al carisma di Kornél Mundruczò, il nome di Martin Scorsese, che come nel precedente film americano del regista-culto ungherese, Pieces of a Woman, firma da produttore esecutivo. Quel giorno tu sarai (il titolo originale e assai più calzante è Evolution) è il film-evento che esce in sala con Teodora il 27 gennaio, giorno della memoria.
Non è il “solito” film sulla Shoah. Per Scorsese riesce a «drammatizzare il movimento stesso del tempo, il modo in cui ricordiamo e il modo in cui dimentichiamo». Non è statica, la memoria, è in evoluzione costante. Ed è la diversa percezione dell’olocausto, attraverso le generazioni, a porre le domande più inquietanti.
Confronto con il passato
In coppia come sempre con la sceneggiatrice Kata Wéber, Mundruczò affida ai suoi esasperati, virtuosistici piani sequenza il compito di comunicare l’esperienza di un trauma che dai campi di sterminio proietta tentacoli cupi sulla Germania di oggi.
Tre episodi e tre epoche, legati dal filo rosso dei sopravvissuti. Tredici minuti di piano sequenza, nel primo episodio, sono un percorso surreale dalle tenebre opprimenti di un bunker senza nome, che un gruppo di uomini in tuta sta ripulendo a forza di idranti, fino alla luce di una scoperta toccante e miracolosa.
Tra l’uno e l’altro momento, si materializza l’orrore: le crepe dei muri celano grumi di capelli, come un intonaco cementato dal dolore umano. Il pianto flebile di una bebè, semisepolta in quella cella di morte, spezza di colpo l’orrore. L’enorme tomba di Auschwitz ha risparmiato Eva, gli uomini in tuta, scopriamo, sono i soldati dell’armata rossa, è il gennaio 1945. Per il regista, è questo il cuore del film.
Lo spunto viene da un romanzo di Imre Kertész in cui si racconta il lavoro di ripulitura dei lager, dopo la liberazione, da parte della croce rossa polacca. La Eva ottantenne del secondo episodio racconta alla figlia, in un lancinante frammento di dialogo, i minuti dettagli di come fu partorita, in piedi, allargando le gambe, mentre le donne in fila nel gelo facevano muro per sottrarre quella neonata e sua madre a una sorte tremenda.
Eva è affetta da demenza senile, non sono e non possono essere ricordi suoi, ma sa tutto, e ci comunica tutto. È un racconto distaccato, senza enfasi, con una crudezza perfino ironica, non ci sono flashback a illustrarlo, ma resta inchiodato in testa con la forza delle immagini estreme.
Ha cinque certificati di nascita, Eva, ma tutti falsi, perché l’identità ebraica è ancora in cerca di pace. Ed è portavoce della rabbia dei sopravvissuti come lei, davanti alla decisione del governo ungherese di bloccare tutte le indennità ai sopravvissuti dell’olocausto, facendo appello a un meschino cavillo burocratico. Ma è anche stanca di apparire sul palco delle commemorazioni ufficiali: «Non voglio essere una sopravvissuta, voglio solo essere viva».
Nelle strade di Budapest
Interamente girato nella cucina della povera casa di Eva, sulla carta sarebbe un Kammerspiel (e parte in realtà da un allestimento teatrale di Mundruczò & Weber) ma è cinema puro. A costruire la suspense emotiva non sono solo i trentasei minuti di piano sequenza, che comprendono anche un tuffo acrobatico dalla finestra verso le strade di Budapest.
La protagonista Lili Monori è ipnotica, una icona del teatro e del cinema ungherese col volto devastato e illuminato da mille cicatrici di vita. La sua demenza è lo scrigno della memoria remota, solido e inespugnabile.
«C’è una generazione che stiamo perdendo», dice il regista, «una generazione che è stata testimone diretta di quegli eventi». È la nostra ultima occasione per confrontarci senza filtri con il passato. E questo viene detto illuminando la chiave realistica di lampi surreali.
Eva potrebbe essere una versione femminile dell’Anthony Hopkins di The Father, senza la metafora dell’acqua, che collega simbolicamente i tre episodi. L’acqua delle “pulizie” nel lager riesplode dagli armadietti e dai muri della cucina, uno tsunami liquido come sono fluide la memoria e l’identità, e come il modo in cui ci relazioniamo a esse – cito parole non mie – può sopraffarci o tenerci a galla.
L’approdo ai giorni nostri
Girato in tredici giorni in pieno lockdown, Quel giorno tu sarai è, per tutta la prima parte, visivamente e tecnicamente spettacolare. Il direttore della fotografia reclutato da Mundruczò è un’autentica superstar, Yorick Le Saux. Lo hanno voluto anche Greta Gerwig per Piccole Donne e Jim Jarmusch per Solo gli amanti sopravvivono.
Quegli instancabili trentasei minuti che alternano piani strettissimi e danza sui corpi sono un saggio di virtuosismo imperdibile. Lo spessore di scrittura e la ricerca stilistica segnano un capitolo a parte nel racconto della Shoah.
I problemi arrivano col terzo episodio. Forse è per questo che a Cannes 74 il film è stato selezionato sì, ma fuori concorso. La problematica intergenerazionale sapientemente imbastita impone un approdo ai giorni nostri, e allo spettro dell’antisemitismo che riaffiora, negato e rimosso per quieto vivere. Ma è una materia che Mundruczò-Wéber governano in modo convenzionale.
La figlia di Eva si è trasferita a Berlino con il figlio Jonas. La scuola del ragazzo viene evacuata per un inizio d’incendio su cui i dirigenti dell’istituto tengono la bocca cucita. Ma per “un certo tipo di studenti” l’ebreo Jonas non è bersaglio solo di ordinario bullismo. Sotto accusa è l’ipocrisia pubblica della rimozione, ma le tappe epocali di questa famiglia portatrice di memoria introducono nuove forme di elaborazione del passato. La madre vuole indagare sul neonazismo che si annida tra i banchi, Jonas vuole soltanto essere lasciato in pace.
La risposta alla sua solitudine popolata di zombie sarà il rapporto salvifico con un’altra diversa, la compagna di scuola musulmana dileggiata perché il padre l’ha rasata a zero: un castigo per i capelli tinti di blu.
C’è un ottimismo fin troppo edificante in questo incontro tra le vittime dei nuovi razzismi, una speranza necessaria, certo, ma che il film costruisce a tavolino, senza emozione. A noi viventi su questo pianeta, tutti moralmente sopravvissuti a cospetto di quel passato, il compito di realizzarla davvero.
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