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Giorgio aveva un problema di postura. Lo sapeva, ma lo aveva sempre sottovalutato. Per lui era un tratto simile a ogni altro ricevuto in dote alla nascita, c’era il colore dei capelli, degli occhi, il sorriso fatto a un certo modo, poi la larghezza delle spalle, il numero di scarpe.
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A lui non dava fastidio, né la considerava un male, né un bene, tantomeno aveva mai pensato di doverla correggere. Sino a un giorno, l’ultimo giorno di scuola.
Giorgio aveva un problema di postura.
Lo sapeva, ma lo aveva sempre sottovalutato. Per lui era un tratto simile a ogni altro ricevuto in dote alla nascita, c’era il colore dei capelli, degli occhi, il sorriso fatto a un certo modo, poi la larghezza delle spalle, il numero di scarpe.
E la postura.
A lui non dava fastidio, né la considerava un male, né un bene, tantomeno aveva mai pensato di doverla correggere. Sino a un giorno, l’ultimo giorno di scuola.
Mentre attraversava il grande atrio del suo plesso, in mezzo a tutte le urla dei bambini esaltati, tanti stretti in abbracci di liberazione per la fine delle lezioni, mentre solcava in silenzio quella gioia non sua, per età e ruolo, sentì perfettamente la voce della collega di inglese, Mariolina Grassetti, affermare con la sua bocca rosa di rossetto che il professor Giorgio Spagnoli, lo si sapeva da sempre, aveva un problema di postura grande come una casa. Un problema di postura incorreggibile.
Oltre alla sofferenza di scoprirsi oggetto di chiacchiere in sua assenza, di lui si parlava e sparlava, iniziò un dialogo muto con lo specchio del bagno per come non lo aveva mai vissuto, neanche negli anni dell’adolescenza. Giorgio si metteva di profilo, a torso nudo.
Le scapole alate lo facevano somigliare a un animale un tempo in grado di volare, una specie di angelo, o pollo, con due monconi rimasti a ricordo del cielo, oppure a una bestia con ali ancora crescenti, un pulcino a cui stanno spuntando un tanto al giorno.
Sapeva che quelle non erano ali, né lo erano mai state. Erano scapole sporgenti, tipiche di chi ha problemi di postura. Come lui.
E che dire delle spalle chiuse? Addotte?
Piegate in avanti da un peso invisibile, neanche qualcuno avesse poggiato sulla sua schiena di bambino, poi uomo, un piombo fatto d’aria, ma pesante lo stesso.
E poi lo sguardo a terra, il collo genuflesso.
Giorgio, ora dopo ora, sguardo dopo sguardo, divenne sempre più severo con il suo doppio rovesciato allo specchio.
Sino ad arrivare dai pensieri ai fatti.
Il neurochirurgo era tra i migliori del mondo, uno dei più grandi colonnari in circolazione, glielo propose chiamandolo con questo termine volgare suo cognato,
grande conoscitore del mondo, volgare come tutto quello che gli usciva dalla bocca.
Raramente si vedono persone così distinte, questo pensò Giorgio quando vide per la prima volta il professor Aletti Enrico. Lui, il professore, non lo guardò un istante. Gli prescrisse una risonanza integrale alla schiena e un’altra divisa per zone. Lo salutò rivelando gli occhi sporgenti, come quelli di una persona afflitta da qualche malattia.
Dentro al tubo bianco martellante, con la testa bloccata, quel leggero senso di claustrofobia che prende tutti durante una risonanza e che in alcuni si trasforma in panico, smania di fuga, Giorgio sentì perfettamente che quello che si era messo in testa di fare: raddrizzare la sua postura, era la cosa più giusta che la sua mente avesse mai concepito.
Spondilolistesi in L5-S1. Protusioni discali in T10-T6-T1. Petto carenato. Lieve crollo vertebrale.
Mentre il professor Aletti sgranava le patologie messe nero su bianco dalla risonanza, Giorgio stava lì lì per piangere. Faceva meglio, forse, a tenersi la sua postura senza indagare oltre. Sarebbe morto, come tutti, senza prendere atto del male che gli cresceva verticale dalla nuca all’osso sacro. Iniziò a domandarsi a cosa servisse la conoscenza.
Il professor Aletti finì di leggere il referto della risonanza e piazzò i suoi occhi in quelli di Giorgio. Poi sorrise, tranquillo.
Tanto lavoro da fare, tanto da correggere, ma nulla di veramente grave.
Avrebbero iniziato dalla patologia più seria: dalla spondilolistesi. Aletti estrasse da uno dei cassetti della sua scrivania una barra cromata di un paio di centimetri, di titanio ci tenne a specificare, e alcune viti sempre di titanio, sempre cromate.
Con due barre e quattro viti, e la sua mano ovviamente, avrebbero richiamato all’ordine la vertebra disobbediente, l’avrebbe unita per sempre alle sue due sorelle più prossime, quella posta più in alto e quella posta più in basso.
Un intervento di alta falegnameria chirurgica.
La sua battuta, ripetuta chissà quante volte, non fece nemmeno sorridere Giorgio. Troppo preso, affascinato, da quella barra e quelle viti. Sembravano i componenti di un supereroe da fumetto. E lui quei componenti ce li avrebbe piantati nella schiena.
Sentì uno strano senso d’esaltazione.
L’intervento chirurgico, di routine, non si fece segnalare per nulla che valga la pena trascrivere su una cartella clinica.
Iniziò per Giorgio la lunga riabilitazione, la scoperta che con quelle due barre di titanio piantate nelle vertebre una parte della sua mobilità l’aveva persa per sempre. Non poteva più piegarsi come una volta, toccarsi con le dita la punta dei piedi, ma questo sacrificio non lo sfiorava minimamente. Allo specchio guardava la cicatrice che nascondeva i suoi nuovi componenti di titanio, con un dito poteva sentirle, le barre, anche le viti, e se le toccava di continuo, anche se faceva male.
Si sentiva migliorato, non sapeva dirlo meglio né gli interessava. Ma era così.
Si fece settembre. L’inizio di un nuovo anno scolastico.
Per settimane nessuno se ne accorse, nessuno lo avvicinò per segnalargli che la sua postura non era più quella di una volta. Era migliorata, più dritta, verticale alla terra. Nessuno gli disse niente. Dovette arrivare a ottobre. Ma ne valse la pena.
La collega di sostegno, Mariotti Giulia, lo fermò per fargli i complimenti. C’era qualcosa in lui, qualcosa di nuovo, forse qualche chilo in meno, forse un nuovo taglio di capelli? Dopo di lei, il dirigente in persona, Savoretti Enrico, si congratulò perché lo vedeva diverso. In breve, si sparse la voce. Arrivò agli alunni, poi ai genitori.
Oramai era di dominio generale.
Non era più quello di una volta.
Aveva cambiato postura.
Ma Giorgio non era felice.
Il professor Aletti lo accolse con il sorriso alla consueta visita di controllo, vedendolo addolorato cercò di tranquillizzarlo: c’era ancora del lavoro da fare. L’intervento alle protusioni discali, una buona fisioterapia per migliorare il quadro generale, lo rassicurò dicendogli che il male sarebbe scomparso per sempre.
Ancora un po’ di pazienza e lavoro.
Giorgio iniziò a piangere. A un certo punto gli sembrò che pure gli occhi sporgenti del professore tirassero fuori lacrime.
Poi iniziò a spiegare. A parole povere ma sentite.
Raccontò quello che era successo alla sua vita grazie ai nuovi componenti di titanio, e se due sole barre avevano compiuto quel miracolo in vita, cosa sarebbe stato del suo futuro se…
…improvvisamente si sentì disperso e bambino, ma si fece coraggio e continuò…
se da due a quattro, a otto, sedici. Sedici barre di titanio per trentadue vertebre.
Solo l’ultima, la sacra, lasciata in solitudine.
Se lui, magnifico professore, avesse voluto con la sua infinita bontà fissare per sempre la sua postura. D’altronde, di fissazione si stratta, fissazione strumentata. Eccolo il nome tecnico dell’operazione d’alta falegnameria chirurgica.
E chi se non l’individuo ha il diritto e pure il dovere di riconoscere alla sua fissazione la misura che gli è propria. Chi ha altri può dettare il limite della fissazione altrui?
E Giorgio dalla vita niente altro voleva.
Una postura di titanio.
Gli occhi sporgenti, anfibi, del professor Aletti erano passati dalla commozione allo stupore, ad altro d’indefinibile.
Seguì il silenzio.
Giorgio si sentiva come un pazzo che ha appena rivelato la sua pazzia.
Il professore si chinò verso i cassetti della sua scrivania.
Quando riemerse, a pioggia, di varia grandezza ma medesima cromatura, iniziò a lanciare ovunque barre di titanio. Rideva, felice come un bambino.
Aveva trovato finalmente il suo uomo da costruire.
Anche Giorgio iniziò a ridere.
Ci vollero mesi, che diventarono anni.
Più che riabilitazione, una rinascita vera e propria.
Quando tornò a scuola, all’insegnamento, tutto ma proprio tutto sapeva di primavera.
Ad attendere Giorgio, dopo la lunga assenza, un drappello di professori invecchiati e alunni cresciuti.
Tutto lo salutavano, tutti impressionati dalla sua postura.
A nome dell’intero plesso, un bambino fu chiamato a consegnargli un dono.
Giorgio, per quanto orientasse gli occhi verso il basso, non riusciva a vedere né il bambino né il dono.
Lo sguardo comandava una cosa e la schiena, blindata in titanio, costretta, non ne faceva nessuna.
Si dovette piegare sulle gambe per vedere il dono.
Nessuno, tranne lui, scoprì in quell’istante lo strazio della fatica.
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