- Olivo Barbieri appartiene a quella generazione di artisti che, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ha rivoluzionato il linguaggio della fotografia italiana
- A cavallo della fine del millennio che Barbieri inizia a percorrere vie sempre più sperimentali. La prima tecnica che abbraccia è quella del fuoco selettivo. Inizia a fotografare, cioè, mettendo a fuoco solo una parte dell’immagine
- Negli anni, l’idea di selezionare arbitrariamente il punto di interesse dell’immagine si è declinata in altre modalità, rese possibili dalla tecnologia digitale. Con risultati stranianti
Olivo Barbieri (Carpi, 1954) appartiene a quella generazione di artisti che, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ha rivoluzionato il linguaggio della fotografia italiana. Insieme a compagni di strada come Ghirri, Guidi, Basilico, Chiaramonte, Cresci e Castella ha iniziato a proporre un tipo di immagini che si distanziavano dalle vedute stereotipate dei fratelli Alinari, dal dilettantismo dei circoli amatoriali e dall’uso del bianco e nero.
Sguardo diverso
Questo gruppo di fotografi proponeva uno sguardo nuovo sul paesaggio (basta con le cartoline!), si sentiva parte del mondo dell’arte contemporanea e, spesso e volentieri, realizzava immagini a colori, fino ad allora considerata una tecnica estranea alla fotografia colta. Si tratta di una vicenda che per semplicità, e forse anche un po’ per pigrizia, si tende a far coincidere con la realizzazione della mostra e del libro Viaggio in Italia.
Era l’anno 1984. Quegli artisti, nel tempo, sono diventati i maestri della fotografia italiana ma, se allora potevano essere considerati un gruppo omogeneo, oggi, in prospettiva, ciò che negli anni è seguito appare, per motivazioni e risultati, molto meno omogeneo. Tra loro, Barbieri è parso quello che più si è allontanato dai presunti dogmi di quella stagione.
Eppure, dal suo punto di vista, non si è trattato di un tradimento: «Già all’inizio della mia carriera desideravo realizzare ciò che faccio ora. È che solo oggi ho gli strumenti tecnici adatti. I miei punti di riferimento – oltre a William Eggleston – erano Man Ray e Andy Warhol e non ho mai creduto alla mistica della straight photography americana, secondo la quale le fotografie sono un documento fattuale della realtà». Ma per capire che cosa intenda, occorre andare con ordine.
L’amore per la notte
La prima mostra Barbieri la realizza nel 1978 alla Galleria Civica di Modena. Espone una serie di immagini a colori realizzate in una fabbrica di flipper abbandonata. Si tratta soprattutto di fotografie ravvicinate delle illustrazioni con cui venivano decorati i giochi. Pin up, supereroi, scene di fantascienza, indiani e cowboy… Sono immagini di immagini. Frammenti di un immaginario pop. Qualcosa che sta tra Walker Evans e Mimmo Rotella.
Contemporaneamente Barbieri percorre il territorio attorno a casa sua, fotografando il paesaggio urbano della provincia. Bar, botteghe, piazzette, giovani e gente del popolo. Ma Barbieri ha anche un’altra predilezione: i notturni. «Avevo in mente certe scene di Apocalypse Now e le visioni urbane di Blade Runner. In fotografia la città di notte era stata già rappresentata, anche da grandi come Brassaï, ma quasi nessuno l’aveva fatto usando il colore», spiega l’artista.
Sono riprese con esposizioni molto lunghe, fissando la fotocamera al cavalletto e sovraesponendo le zone più luminose che, in stampa, vengono quasi bruciate. Sulla pellicola vengono impresse tonalità di colore inaspettate, prodotte dalle diverse qualità di luce artificiale. Cieli di un viola irreale. Azzurri e verdi acidi. Le strisciate bianche e rosa dei fanali delle auto. Il movimento della luna e delle stelle che buca il cielo buio. Il fascio di luce che sale dall’oculo del Pantheon squarciando il cielo di Roma.
Verso lo sperimentalismo
Anche quando nel 1989 approda per la prima volta in Cina, con la curiosità di conoscere la forma delle città di quel nuovo nuovo mondo, le scene notturne restano uno dei suoi grandi interessi. Ma è soprattutto la possibilità di confrontare realtà analoghe e distanti che lo muove. «La grandezza della fotografia sta nel permettere di vedere affiancate realtà distanti. Puoi appoggiare sullo stesso tavolo cinque fotografie di città in continenti diversi per vedere le differenze. Le immagini sono fondamentali per confrontare i pensieri. Lo stesso Wittgenstein ne era ossessionato. E Aby Warburg fa esattamente questo: associa immagini e le confronta per cercare di capire».
Nei suoi libri, Barbieri spesso giustappone foto dello stesso soggetto ripreso di giorno e di notte. O coglie forme analoghe in continenti lontani: un ponte sui Navigli a Milano e uno nella provincia cinese dello Hunan; la Torre di Pisa e un edificio a Osaka, in Giappone.
Ma è a cavallo della fine del millennio che Barbieri inizia a percorrere vie sempre più sperimentali. La prima tecnica che abbraccia è quella del fuoco selettivo. Inizia a fotografare, cioè, mettendo a fuoco solo una parte dell’immagine, indipendentemente dalla lontananza del soggetto dall’obiettivo. È una tecnica che sfrutta le caratteristiche tecniche del banco ottico, la macchina usata nelle fotografie di architettura, che dà la possibilità di modificare la posizione della lastra fotografica rispetto all’obiettivo. «In sé è un errore tecnico, ma io l’ho sfruttato perché mi permette di indicare qual è il senso di lettura dell’immagine, suggerendone un’interpretazione».
L’esperienza della visione
Tra gli esempi più interessanti c’è la coppia di fotografie scattate all’Incredulità di San Tommaso di Caravaggio. L’inquadratura è la stessa, la distanza dell’obiettivo dall’opera anche, ma nella prima a fuoco c’è solo la fronte corrucciata del santo, nella seconda a essere nitido è solo il dito che entra nella piaga di Cristo. «Nel primo scatto ti concentri sul pensiero e sul dubbio, nel secondo sulla verifica di quel dubbio», spiega. È un linguaggio che l’artista inizia a usare per fotografare paesaggi, edifici, contesti urbani.
«Lo sguardo umano è sempre a fuoco ma, psicologicamente, noi ci concentriamo su questo o su quel particolare, tralasciando ciò che ci interessa di meno». In questo senso, per Barbieri, il suo è un tipo di fotografia che, pur distanziandosi dalla presunta riproduzione fedele dell’oggetto, rispetta l’esperienza comune della visione. Un effetto collaterale di questo tipo di fotografia è che le città appaiono come fossero dei modellini. Appaiono come gli avatar di sé stesse. Questo lo ha portato a fare delle riprese aeree dei centri urbani. Nasce così il progetto Site Specific che, per un decennio, fino al 2013, ha portato Barbieri a ritrarre le maggiori città in tutto il mondo.
Tecniche stranianti
Negli anni, l’idea di selezionare arbitrariamente il punto di interesse dell’immagine si è declinata in altre modalità, rese possibili dalla tecnologia digitale: la desaturazione parziale, lo scontorno di soggetti geometrici e il riempimento di forme geometriche presenti dell’inquadratura, la coesistenza del positivo e del negativo nella stessa immagine. I risultati sono stranianti. Astrattismo formalista applicato alla fotografia. Anche se il punto di partenza è uno scatto di un soggetto reale. Nulla è inventato delle forme che vediamo nell’immagine. Spiega: «È un modo che mi serve per porre nuove domande. Questa montagna che cos’è? Perché c’è questo edificio? Vale la pena conservarlo?».
Dopo il furore di queste sperimentazioni, Barbieri ha sentito negli ultimi anni l’esigenza di tornare alle origini della sua fotografia. Lo ha fatto con un libro che si intitola Il disegno dell’acqua realizzato per la Fondazione Banca Agricola Mantovana. Si tratta di un percorso nel quale l’artista prova a interrogarsi sulle relazioni che ci sono tra paesaggio naturale e «paesaggio artistico» della città di Mantova, utilizzando come elemento di reazione l’acqua. Barbieri, che ha dedicato tutta la vita alla fotografia, non sa ancora spiegarsi perché certe immagini ci colpiscono e altre no. Che cosa cerchiamo in esse? Di una cosa è certo: la memoria è fatta di immagini e la realtà è fatta di immagini. Senza immagini non c’è modo di conoscere il mondo.
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