- Questo libro è un autosabotaggio. Chi lo leggerà cercando nelle sceneggiature le stesse sensazioni provate nel guardare i film si domanderà perché esse non coincidono, perché i dialoghi differiscono.
- È molto complicato realizzare Favolacce, un film che parla la lingua dei bambini. Lo abbiamo scoperto subito: i bambini dicono tantissime cose che gli adulti non accettano. E tra queste cose c’è la verità.
- Il Capolavoro resiste per mesi prima di lasciare spazio ad America Latina, crasi tra sogno e realtà, tra aspirazione e accettazione, una sintesi più precisa dei nostri intenti narrativi e dell’ossimoro che è la vita dal nostro punto di vista.
Pubblichiamo l’introduzione del libro “Trilogia. La Terra dell’Abbastanza. Favolacce. America Latina” dei fratelli D’Innocenzo, edito da La Nave di Teseo, 2022.
Questo libro è un autosabotaggio. Chi lo leggerà cercando nelle sceneggiature le stesse sensazioni provate nel guardare i film si domanderà perché esse non coincidono, perché i dialoghi differiscono, perché in una scena c’è scritto che sta diluviando mentre è stata girata con il sole a picco.
Chi lo leggerà auspicando di emozionarsi come fatto durante la visione resterà deluso. Il calore, l’umanità e la compassione arrivano grazie all’atto cinematografico, all’intuizione dell’attore, al vivere delle cose, al fatto che c’è stato quel dannato sole a picco.
Questo libro rappresenta la nostra lista di desideri nascosti, desideri che non si sono avverati, o che sono stati avverati da altri. È la nostra confessione di come, nonostante immaginiamo, scriviamo, disegniamo, fotografiamo, dirigiamo e montiamo le nostre storie, una volta ultimate non sono più nostre. Una manifestazione intima e imperfetta di dove comincia il sogno del cinema. Che, come ogni altro sogno, sfugge ogni volta al nostro controllo.
Il copione della Terra Dell’Abbastanza nasce a ventuno anni, dopo i rifiuti unanimi dei produttori cinematografici italiani alla sceneggiatura di Favolacce. Nasce sia come sfogo per queste delusioni sia per contrappunto alla natura sognante e intangibile di Favolacce. Nasce dal nostro guardarci alle spalle, a luoghi e persone che avevamo visto vivere, a sentimenti che avevamo provato ma non ancora metabolizzato. Nasce, essenzialmente, nella premessa migliore possibile: il nulla avanti e il nulla dietro.
La genesi concreta è un titolo, venuto fuori durante una cena tra noi, quando ancora condividevamo l’affitto, così esiguo eppure complicato da pagare. La Terra Dell’Abbastanza, titolo sicuramente astratto per un film eppure, nella nostra voglia di non piegarci a quello che avrebbe potuto funzionare, non solo scegliamo di usarlo ma lo rendiamo la bussola di una narrazione sia robusta (da ex giardinieri per noi la terra ha un valore intimo, carnale) sia astratta.
Inizialmente (e usiamo la parola “inizialmente” con cautela, visto che l’intero processo di scrittura si è consumato in circa venti giorni) il film doveva raccontare la notte di due ragazzi che si raccontavano la propria vita. Nulla di più. Poi, quello che è avvenuto nella storia si è riflesso nel processo di scrittura: un incidente. Una piccola frana su questo gruzzolo di terra. E da lì si sono formati i caratteri, i temi, gli accadimenti, i rendiconti. La sceneggiatura che leggerete è densa di avvenimenti.
Chiunque frequenti la scrittura creativa sa che in storie dagli eventi numerosi una scaletta è fondamentale per mettere ordine. Noi non l’abbiamo mai scritta. Come non abbiamo mai messo per iscritto la trama. La prima volta che siamo stati costretti a scrivere la trama della Terra Dell’Abbastanza è stato poco prima che il film uscisse in sala, per poterla diffondere nei comunicati stampa. Erano passati nove anni dalla prima stesura del copione.
È molto complicato realizzare Favolacce, un film che parla la lingua dei bambini. Lo abbiamo scoperto subito: i bambini dicono tantissime cose che gli adulti non accettano. E tra queste cose c’è la verità. Durante la scrittura di Favolacce eravamo incoscienti, avevamo diciannove anni e abbiamo provato a procrastinare questa età fino ai trenta, quando abbiamo potuto effettivamente girare questa storia. Qui si parla di scrittura, e quella di Favolacce è stata istintiva, mai ponderata. Spudorata. Sputata.
I manuali di sceneggiatura insegnano che le didascalie vanno scritte nel modo più sintetico possibile, per concentrarsi sui dialoghi e non far perdere tempo a chi legge. Grande stronzata. In un film in cui tutto vuole essere tra le righe abbiamo fatto esattamente l’opposto di quello che insegnano alle “scuole di sceneggiatura” (sigh). Il che non fa di noi dei geni della scrittura. Fa di noi solamente gli sceneggiatori di Favolacce, un film che doveva essere scritto così, facendo dell’apatia e dei dettagli effimeri la colonna portante di qualcosa di invisibile.
Può un film dalla trama volutamente irrealistica, dall’ambientazione favolistica, con un narratore che dichiara fin da subito che sta bluffando, essere manifesto della contemporaneità? Per molti è stato così. Noi invece conserviamo questa domanda per quando smetteremo di ricordare il film e soprattutto da chi è stato realizzato.
Dalla sceneggiatura al compimento del film sono passati undici anni. C’è un unico elemento che ha continuato a cambiare, mentre tutto restava intatto: il titolo. Suburbia in sottotitoli; La meravigliosa vita di Alessia che ho trovato; Stanze completamente insonorizzate; Qualcosa da proteggere dal caldo.
Di solito cambiavamo il titolo per mandare allo stesso produttore il copione più di una volta (tanto avrebbe continuato a non leggerlo) ma eravamo coscienti che non c’era ancora il titolo adatto. Un titolo non c’è fino all’attimo prima che venga trovato. Favolacce fu un titolo fortunato. Mentiremmo se dicessimo come, quando e perché ci venne in mente. Molto probabilmente, come ogni cosa, è accaduta e basta, laterale al tempo.
Berlino, febbraio 2020. Mentre tutto il mondo inizia a interrogarsi su cosa sia questo virus chiamato Covid-19, noi due vaghiamo nell’intangibile vaghezza di un soggiorno alberghiero al centro della città tedesca, in attesa di sapere se il festival dove avevamo presentato Favolacce lo avrebbe premiato o meno.
Nei festival solitamente il verdetto arriva la sera prima. Nel lasso di tempo tra la première e la fatidica sera delle decisioni, noi proviamo ad astrarci, per rifugiarci oltre l’attesa e le aspettative. Il seme drammaturgico di America Latina nasce in questo limbo e, lo scopriremo solamente mesi dopo, è lo specchio di tutto ciò che stavamo vivendo in quei giorni: incertezza per l’avvenire; rimanere chiusi in una casa che non è più la tua; sentirsi stranieri ovunque; mille dialoghi in solitudine; paura che qualcosa di sconosciuto si fosse annidato nelle nostre vite e le avrebbe completamente cambiate, lasciando emergere ansie e paranoie.
Il titolo provvisorio di questo film è Il Capolavoro, sintesi di ciò che il protagonista riesce a creare nella sua mente per sfuggire a qualcosa di terribile. Titolo chiaramente anticommerciale e, soprattutto, facile preda di beffe che iniziamo a subodorare volendo proporre un film tutto di interni e lasciarlo anche spoglio di parole. Una provocazione sul linguaggio del cinema? Un’esasperazione bulimica dei nostri gusti cinematografici?
A ogni modo Il Capolavoro resiste per mesi prima di lasciare spazio ad America Latina, crasi tra sogno e realtà, tra aspirazione e accettazione, una sintesi più precisa dei nostri intenti narrativi e dell’ossimoro che è la vita dal nostro punto di vista: un urlo che nessuno ascolta, un silenzio che martella la testa. America Latina è ossessione, lo spauracchio di essere noi stessi: la paura infame e maledetta di essere un orribile capolavoro.
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