Tra le 5:22 e le 6:03 del 2 giugno 202… la statua di Giuseppe Garibaldi del Gianicolo scese dal cavallo.

Alle 5:22 una volante dei carabinieri era passata il parco e i due appuntati non aveva rilevato nulla d’insolito. Non si erano fermati – avrebbero precisato ogni volta nei giorni successivi –, ma la statua torreggiava ben in vista proprio al centro della piazza, e come non notarla, una cosa come quella? Soprattutto per chi, come loro, veniva dalla strada tutte curve che sale dal Lungotevere e da San Pietro: semplicemente impossibile.

Alle 6:03 era passato invece il camion della nettezza urbana che ogni mattina aveva il compito di rassettare l’intero spiazzo dopo i consueti bagordi notturni dei turisti. Sulle prime nemmeno il signor Oreste Paolozzi – cinquantadue anni, originario di Frosinone, un diploma in ragioneria – se ne era accorto. Come ogni mattina, aveva irrorato l’asfalto con i disinfettanti prescritti dai protocolli dell’azienda municipalizzata senza uscire dall’abitacolo. Poi però, all’improvviso, aveva alzato lo sguardo e aveva visto. C’era il grande piedistallo in travertino. C’erano i quattro gruppi bronzei, uno per ogni lato. C’era il cavallo. Mancava solo Giuseppe Garibaldi.

La notizia si era diffusa con l’indolenza di un tipico giorno di festa, per via gerarchica, poi sempre più velocemente. Nell’incertezza il ragionier Paolozzi aveva telefonato infatti al suo diretto superiore; il suo diretto superiore, a sua volta, aveva composto un po’ di numeri a vuoto prima di riuscire a raggiungere un dirigente dell’azienda che tutte le mattine si alzava prima dell’alba per farsi in pace una corsetta in riva al Tevere. Ancora col fiatone, un poco irritato da quella interruzione così molesta, il dirigente gli aveva suggerito di denunciare immediatamente alla polizia la scomparsa del Generale e aveva ripreso con il suo esercizio. Da allora tutto si era svolto con la massima rapidità. Neanche un’ora dopo, l’intera area era transennata. E qualche minuto più tardi la notizia era giunta alle orecchie del presidente del Consiglio, che era stato svegliato appositamente dal ministro dell’Interno dopo una rapida consultazione con il prefetto di Roma e il capo della polizia. Nel frattempo erano giunti sul posto i primi giornalisti, e qualche curioso richiamato dalle prime immagini del cavallo senza cavaliere postate dai siti dei maggiori quotidiani della capitale. Garibaldi: pareva fosse sparito Garibaldi. Cioè?

La cosa era di per sé parecchio strana, ma la coincidenza con la Festa della Repubblica la rendeva anche più sospetta. Quello non era un semplice atto di vandalismo: qualcuno, nella notte, aveva attentato vigliaccamente a uno dei simboli più cari a tutti gli italiani! La patria, la nazione (alcuni, più prosaicamente, preferivano parlare di paese, ma erano una minoranza).

Anzi proprio la repubblica: perché Garibaldi, bisognava sapere, era già repubblicano quando in Italia vigeva ancora la monarchia, e addirittura prima.

In ogni caso, la gravità del gesto era evidente: e da un momento all’altro si attendeva una dichiarazione ufficiale del presidente del Consiglio, che quella mattina doveva presenziare assieme al presidente della Repubblica alla grande parata annuale delle Forze Armate. Il governo, però, taceva, e all’ora di pranzo l’unico a parlare ai microfoni di tutte le radio e le televisioni era ancora il ragionier Paolozzi, dall’alto dei suoi venticinque anni di onorato servizio per le strade della capitale. Se non altro, lui poteva confermarlo: prima di quella mattina Garibaldi non si era mai mosso, anche se, dopo il fulmine che aveva spezzato la base della statua nel 2018, l’intero monumento era stato imbracato con delle vistose impalcature in attesa del restauro.

Solenne ma affabile, con la testa appena reclinata di chi contempla dall’alto l’esito di un’altra giornata memorabile e scopre, tutto a un tratto, di essere stanchissimo: in quelle fattezze rassicuranti da quasi un secolo e mezzo l’eroe dei due mondi vegliava benevolo dal Gianicolo sui parallelepipedi e sulle cupole della città a lui più cara. Il resto delle notizie fondamentali lo si desumeva facilmente da Wikipedia. L’aveva fusa Alessandro Nelli su progetto e bozzetto di Emilio Gallori per il venticinquennale della fine del potere temporale dei pontefici. Il motto «O Roma o morte», che si leggeva sulla corona d’alloro ai piedi del monumento, era stato aggiunto invece qualche anno dopo, in occasione del centenario della nascita del Generale. Poi, da allora, poca roba. Sino al fulmine: e a quella mattina sciagurata.

Invece, per la delusione dei giornalisti, ancora nessun commento ufficiale. Durante la cerimonia lungo via dei Fori Imperiali, certo, qualcuno ebbe l’impressione di cogliere una punta disagio, un impercettibile disallineamento nella mimica facciale dei due presidenti, come quando i sottotitoli di un film straniero risultano non perfettamente sincronizzati con le immagini sullo schermo – ma anche quello fu soltanto un attimo. I discorsi della giornata, invece, non si discostarono dagli interventi pronunciati in occasioni simili: la collaborazione europea, il momento difficile, le sfide di domani, la coesione sociale, il ruolo dell’Italia nel nuovo equilibrio geopolitico, la sua missione di pace in un mondo fattosi tutto a un tratto così instabile. Proprio come se quella mattina Garibaldi fosse ancora in sella.

Il presidente del Consiglio parlò finalmente ai telegiornali della sera, dopo che qualche ora prima un altro esponente della coalizione di governo aveva già pronunciato la parola fatidica: terrorismo, si era trattato di un atto di terrorismo. Vandalizzare un’opera d’arte è di per sé una cosa grave, certo. Ma qui la profanazione aveva colpito uno dei simboli stessi della comunità nazionale! Davanti a una sfida di queste proporzioni si imponeva una risposta della massima durezza. Per questo, nei giorni successivi, il suo partito avrebbe presentato un progetto di legge al fine di scoraggiare eventuali imitatori con un pesante inasprimento delle pene per reati simili.

Il presidente del Consiglio provò invece a sdrammatizzare. Sì: era un gesto inaudito. Certamente: la data non sembrava casuale. Ovviamente: avrebbero trovato presto i responsabili, la cui individuazione era giù stata demandata a un nucleo speciale dell’antiterrorismo. No: purtroppo, ancora nessuna idea dell’identità dei responsabili (anche se, date le dimensioni della statua e la rapidità dell’azione, non si trattava certamente di un individuo isolato). Non poteva dire di più, ma la polizia e i carabinieri stavano seguendo già diverse piste. Sì: davanti a una minaccia di simile entità, il governo non si sarebbe lasciato intimorire da quanti avevano così vigliaccamente infierito su una delle icone della italianità più note in tutto il mondo. Ancora un sì: Garibaldi era una grande eccellenza italiana. E il suo governo lo avrebbe tutelato, come faceva sempre con i prodotti migliori del Made in Italy insidiati dalle contraffazioni. Qualunque fosse la sua origine, nessun attacco del genere sarebbe stato ulteriormente tollerato.

Intanto la notizia correva e prima della sera tutte le maggiori agenzie di informazione del mondo ebbero una loro troupe in città per documentare dal vivo la scomparsa del Generale, come accade in genere solo per i conclavi. Un’inviata del New York Times fece notare che il 2 giugno non era soltanto la Festa della Repubblica, ma anche l’anniversario della morte dello stesso Garibaldi (quell’uomo era un vero portento! Non gli era bastato nascere il giorno della festa di indipendenza americana, il 4 luglio… Persino in simili dettagli Garibaldi sapeva essere un vero eroe dei due mondi!). Ma, a parte questo, e le dichiarazioni di qualche turista che la sera prima si era ubriacato sulla terrazza del Gianicolo, non c’erano altre novità. La statua, o quello che ne rimaneva adesso, era transennata, e la polizia non lasciava avvicinarsi neanche i cronisti per le solite riprese. L’unica scena di un qualche interesse per i telegiornali fu dunque l’arrivo degli uomini del nucleo della polizia scientifica, con le loro tute bianche e le loro vistose maschere protettive su tutto il volto. Le telecamere di videosorveglianza? Ah, ad avercene! Ma purtroppo erano tutte da un pezzo fuori uso e, con i consueti problemi di bilancio del comune, l’amministrazione non aveva ancora provveduto a sostituirle. Forse la primavera prossima.

Perché qualcuno si era portato via Garibaldi, d’accordo. Questo era chiaro ormai. Ma… a che scopo? E proprio quel giorno, poi. Qui le interpretazioni divergevano, fornendo materiale in abbondanza per i talk show serali. Cancellato!, si accaloravano gli uni: avevano rimosso Garibaldi a tradimento, senza uno straccio di dibattito. Lui, che si era battuto sempre per i più deboli (e che i campi di Caprera se li era sempre coltivavi tutto solo), trattato alla stregua di un qualsiasi schiavista della Louisiana! Il centro di autocoscienza femminista “Erzsébet Báthory” lamentò invece che – «con il solito pregiudizio patriarcale» – i presunti ladri avevano preso di mira la statua di Giuseppe Garibaldi trascurando quella di sua moglie Anita, collocata soltanto a pochi metri da quella dell’Eroe dei due Mondi. Perché lui sì, e lei no? Mentre, dopo tutto, era stata Anita a morire nelle paludi di Comacchio… A meno che non si trattasse di tutt’altro. Un collezionista… Un collezionista di parafernalia risorgimentali che aveva voluto aggiungere un pezzo particolarmente raro alla sua raccolta: un esemplare unico. Tanto più che a Garibaldi, come si sa, gli ammiratori non erano mai mancati. In Italia e all’estero. Anche questa era una ipotesi da non prendere alla leggera.

Parole, parole… Le parole sopperivano alla penuria di immagini, se si escludevano le primissime foto dell’onnipresente ragionier Paolozzi e un pugno di scatti a opera di una turista australiana, che quella mattina passava lì per caso e aveva fatto in tempo a immortalare col telefono la polizia impegnata a coprire il cavallo così impudicamente privo del suo cavaliere. Lo sfregio del Gianicolo, aveva titolato un giornale. La statua della vergogna, aveva ribattuto un altro, sempre in prima pagina. Come che fosse, tempo due giorni e pareva che in giro nessuno più parlasse d’altro. I cappuccini di mezza mattinata, le pizze di fine anno, gli aperitivi in spiaggia: la statua di Garibaldi spuntava adesso nelle conversazioni più diverse, con esiti talvolta imprevedibili. A Vercelli, a conclusione di una lite tra condomini, un barista sessantenne comprò una tanica di benzina e provò a dar fuoco all’appartamento di un vicino che aveva osato sostenere in sua presenza che lui, di quelli come il Generale, non sapeva proprio che farsene (per poco non aveva ammazzato tutta la famiglia, nonnetta novantenne inclusa). Altri, per fortuna, volevano rendersi semplicemente utili. Il giorno dopo l’incidente di Vercelli, così, una coppia di gemelli di Viterbo lanciò una sottoscrizione on-line per offrire un riscatto ai rapitori in cambio dell’immediato rilascio della statua. Cose del genere: ogni giorno. Da Trento a Catania ne spuntavano abbastanza per riempirci due pagine intere in cronaca.

Come spiegò in prima serata uno specialista di mass media, il drappo che la polizia aveva steso attorno al monumento contribuiva ad alimentare la curiosità del pubblico. In un mondo dove tutto è visibile, dove non ci sono eventi che non vengano documentati all’istante da un filmato, quel vuoto aveva qualcosa di insopportabile. Se nessuno vedeva, tanto più tutti volevano vedere. Quella insistita lacuna percettiva (disse proprio così, davanti a cinque milioni di telespettatori: lacuna percettiva) si stava rivelando più potente di qualsiasi immagine.

Fu indubbiamente così che sorse la tesi del complotto. Forse il Generale era ancora al suo posto. Forse si trattava soltanto di una manovra del governo per distrarre gli elettori da questione più scottanti. Che prova c’era che la statua fosse davvero scomparsa, se nemmeno con i droni era più possibile scattare qualche fotografia dall’alto? Il sospetto era partito dal blog di un imprenditore salentino specializzato nel recupero degli antichi grani, ma da lì si era diffuso rapidamente e ora ne parlavano persino in America e in Nuova Zelanda.

Quando una petizione on-line superò le cinquecentomila firme, il presidente del Consiglio in persona decise che era il momento di prendere provvedimenti, imponendo che le transenne venissero rimosse la sera stessa. Così tutti poterono finalmente verificare con i propri occhi. Sì, era come avevano detto: Garibaldi se ne era andato per davvero.

Da quel che si capiva dalle foto, i vandali avevano agito con professionalità chirurgica, staccando il Generale dalla sella lungo la linea dei suoi pantaloni come se non si fosse trattato dello stesso blocco di bronzo. Era un’operazione assai complessa, che richiedeva macchinari sofisticati e certamente non era alla portata del primo venuto. Soprattutto, nessuno poteva aver fatto un lavoro del genere in così poco tempo, come puntualizzò il professor Krautheimer, luminare di tecnica delle costruzioni presso l’Università di Magonza.

Certo, se la testimonianza di Paolozzi pareva indiscutibile (l’ora si leggeva chiaramente sulle foto e l’esatto momento delle sue chiamate era stato verificato più volte dal gestore telefonico), i carabinieri potevano essersi sbagliati. Anche così però il tempo a disposizione era comunque troppo poco: gli ultimi turisti se ne erano andati solo alle due, lasciandosi dietro la consueta scia di lattine colorate. A quel punto, come si vedeva da diversi selfie, il Generale era ancora sul suo cavallo. E quattro ore non sarebbero comunque mai bastate, assicurava categorico il professor Krautheimer. Anche in laboratorio un intervento del genere avrebbe richiesto diversi giorni. Dunque?

Proprio allora che la storia di Garibaldi cominciava a evaporare nel primo vero caldo dell’estate, una nuova rivelazione venne a riaccendere l’interesse del grande pubblico. Quasi in contemporanea, lo stesso pomeriggio il sindaco di Luino e il sindaco di Lucca annunciarono che anche le loro statue del Generale erano scomparse. Anzi, da quello che erano riusciti a ricostruire, tutte e due erano state portate via prima di quella di Roma, ma trattandosi di statue in piedi, cittadini e autorità locali avevano creduto inizialmente che il monumento fosse stato rimosso per qualche intervento di restauro. Succedeva, e nessuno si era preoccupato più di tanto. Finché la vicenda del Gianicolo aveva fatto maturare i primi sospetti, i sindaci avevano intrapreso le necessarie verifiche e si erano decisi finalmente a denunciare il furto.

Cesenatico, Cremona, Genova e Torino seguirono nei giorni successivi. Poi Bologna (un’altra statua equestre). E Monza e Rovigo. Orbetello. E Bari. Qualcuno, pareva evidente, stava portandosi via tutti i Garibaldi. Prima che il governo prendesse provvedimenti, facendo presidiare gli ultimi monumenti rimasti come aveva promesso il Presidente del Consiglio, durante un uragano estivo di particolare violenza scomparvero anche quelli di Milano e Napoli. Lampi, fulmini e dodici ore di pioggia torrenziale senza remissione: finché, al mattino, col bel tempo, oltre a registrare i danni dei rovesci ci si accorse che durante il nubifragio anche i cavalli di Milano e Napoli avevano smarrito il loro cavaliere. Era una notizia così grossa che nessuno prestò la minima attenzione ai Garibaldi di Verona e Como, che pure quella notte avevano subito la stessa sorte.

I più pessimisti insinuavano che presto non ne sarebbe rimasta più nessuna. Proprio per questo, però, il presidente del Consiglio si impegnò personalmente a rassicurare i cittadini, rivolgendosi al paese a reti unificate. Se le statue non fossero ricomparse entro due mesi, avrebbe ordinato delle copie di quelle di New York, Chicago e Buenos Aires: copie perfettamente identiche agli originali. Oramai la tecnologia lo consentiva, anzi con le stampanti 3D si trattava di un gioco da ragazzi. Un gruppo di esperti stava già approntando un preventivo. Perché l’Italia, la sua Italia, non sarebbe rimasta senza un degno monumento all’Eroe dei due mondi: era la sua promessa.

O invece no. Chi lo aveva detto che l’Italia non ne potesse proprio fare a meno? La consueta carenza di notizie dell’estate lasciava spazio ai dibattiti della canicola e per un paio di settimane storici e commentatori politici si rimpallarono quell’interrogativo così banale. In fondo il Generale latitava dal Gianicolo da oltre due mesi e per milioni di italiani la vita continuava esattamente come prima: dopo anni, anzi, nelle ultime settimane i dati della produzione industriale avevano addirittura registrato un sorprendente segno più per la prima volta dalla fine della seconda pandemia.

Il Colosseo. La Fontana di Trevi. Il Pantheon. Quelli erano veri monumenti da salvaguardare: monumenti che muovevano milioni di turisti ogni anno. Ma Garibaldi? Era davvero così indispensabile avere la sua barba e il suo poncho in ogni piazza della penisola?

Per questo, quando in autunno presero a scomparire anche le statue di Giuseppe Mazzini, la notizia ricevette un’attenzione limitata: era appena iniziato, e già sembrava una storia vecchia. Anzi, questa volta nessun esponente del governo promise di far vigilare sugli ultimi monumenti ancora al loro posto, col pretesto che le forze dell’ordine erano tutte impegnate a fermare una nuova ondata di sbarchi. E, quando toccò a Carlo Pisacane e a Daniele Manin, unicamente la stampa locale dedicò all’evento un trafiletto in cronaca. Solo quando nella stessa notte scomparvero i Cavour di Torino, Roma, Milano e Napoli sembrò prodursi un nuovo, brevissimo sussulto di curiosità nell’opinione pubblica. Pure lui! Ma Cavour aveva sempre riscaldato i cuori meno di Garibaldi e di Mazzini, e in breve nessuno sembrò prestare più attenzione alla cosa: voleva dire che da quel momento avrebbero fatto senza. Certo, adesso c’erano le nuove leggi di emergenza, e telecamere a ogni angolo con un nuovo software di riconoscimento facciale importato dalla Cina per rendere più sicure le città maggiori, ma tutti dicevano che il governo le avrebbe impiantate lo stesso: con o senza i furti delle statue. Nonostante Garibaldi ci avesse abbandonati, l’inverno era particolarmente mite e la stagione dei panettoni si avvicinava dolcemente senza scosse.

Fu solo qualche mese dopo che, a poco a poco, cominciammo a scomparire pure noi.

Di Gabriele Pedullà è ora in libreria per Einaudi il romanzo Certe sere Pablo. C’è stato un tempo, ed era solo ieri, in cui il richiamo della militanza era inevitabile per tutti, in una nebbia di sigarette, poche ore di sonno e nottate al freddo ad attaccare manifesti. Adesso quel tempo sembra finito, anche se il fuoco della politica brucia ancora in tanti «no» di oggi.

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