Il centenario dell’assassinio fascista di Giacomo Matteotti sta suscitando una grande attenzione nell’opinione pubblica. Quello di Enzo Fimiani, Un’idea di Matteotti. Un secolo dopo (Marietti 1820, 2024), è il libro che ancora non avevamo, grazie a cui ricollocare Matteotti al centro della storia dell’Italia contemporanea e farne la cartina di tornasole di diversi suoi passaggi identitari: le vere e proprie “faglie” della storia italiana novecentesca (la politica di massa nel rapporto e con l’uso della violenza, il fascismo e l’antifascismo, la democrazia repubblicana).

L’autore reinterpreta Matteotti, proponendoci alcuni dilemmi intellettuali e civili lungo tre direttrici: collocare la sua uccisione nel processo unitario del fenomeno storico fascista, i cui caratteri qualificanti furono sin dalle origini l’uso sistematico della violenza contro gli avversari/nemici, la negazione dei diritti di libertà ed il dispregio della democrazia parlamentare; comprendere ma allo stesso tempo decostruire il suo mito di eroe e martire antifascista, per ricondurre Matteotti alla Storia del “suo” tempo e delle inquietudini che la crisi del primo dopoguerra lasciò come una «eredità differita»; ed infine, come Fimiani scrive, «riflettere sullo strano destino di Matteotti, icona del Novecento, ma, per certi versi, cattiva coscienza delle contraddizioni e dei cortocircuiti di tutte le famiglie politiche del secolo, nella “sua” sinistra come nelle destre, perché a nessuna omologabile, da nessuna manipolabile e, per tutte, “una macchia, una colpa”».

Ecco allora che nel volume troviamo «meno storia e più riflessione sulla memoria, che di quella storia si conserva e tramanda, e che quella storia distorce» (p. 17): si indagano le occorrenze odonomastiche nelle nostre città e nei media (sul web e in rete), nel servizio bibliotecario nazionale, gli anniversari scoloriti del calendario civile. Occorre dunque fare i conti con la difforme ricezione che degli studi storici si ha nel discorso pubblico attraverso i sistemi informativi, educativi e istituzionali.

Momento chiave

Gli studi storici hanno bene evidenziato acquisizioni concordi. «Non v’è Matteotti senza fascismo, potrebbe dirsi. E pure, in larga parte, non v’è il fascismo, come lo abbiamo conosciuto nella prassi, senza Matteotti» (p. 47).

È nella declinazione della crisi italiana del primo dopoguerra, nello scontro tra democrazia liberale e fascismi, che è riconoscibile la peculiare figura di Matteotti, socialista intransigente e riformista, fautore delle libertà e della democrazia rappresentativa, creatore e interprete di una conseguente azione antifascista, nel vivo dei conflitti sociali del suo Polesine bracciantile così come nell’arena politico-parlamentare nazionale (“Tempesta” fu il soprannome che si conquistò).

Pacifista ed educatore, giurista e portavoce di un’idea di partecipazione che muoveva dalle tradizioni civico-amministrative territoriali, giunto in parlamento nel 1919, egli colse prima e più di tanti altri l’essenza e le prospettive dittatoriali del fascismo asceso al potere e le disvelò con rigore, ancor prima del suo noto discorso parlamentare del 30 maggio 1924.

Il rapimento e l’uccisione da parte della Ceka fascista, nonché la chiusura del Parlamento per mesi e l’assunzione della responsabilità politica del delitto da parte di Mussolini nel suo discorso del 3 gennaio 1925, segnarono l’asservimento dello stato ad una dittatura, di cui il cadavere di Matteotti sarebbe stato l’ombra memoriale più pesante.

Il triplo binario 

Mosse da allora il “triplo binario” della memoria di Matteotti: «In negativo, da parte del fascismo, che ha tutto l’interesse a svilirlo, seppellirlo anche in idea, attaccarlo in vario modo; idealizzata invece in positivo, da parte del mondo antifascista e democratico, quale emblema di una visione opposta al regime; trasfigurata in icona eroica e senza tempo da più parti, diverse tra loro» (p. 81).

Se l’eco dell’assassinio ebbe un largo spettro di iniziative nell’emigrazione antifascista, essa fu difforme in Italia ed evidenziò quell’isolamento che Carlo Rosselli rimarcò senza infingimenti a dieci danni dalla morte, sottolineando già allora ma vanamente che era l’antiretorica la chiave per comprendere l’essenza della natura umana e politica di Matteotti.

Nel quadro di una memoria patriottica che risaliva al martirologio risorgimentale, era stato Piero Gobetti, nel delinearne il ritratto, a indicare le virtù del “nuovo” martire politico, eletto a esemplare simbolo antifascista. Per i comunisti fu Antonio Gramsci a circoscrivere il contesto nel quale collocare Matteotti: parte dei più «animosi pionieri» del movimento socialista ed interprete della «contraddizione» tra il necessario risveglio della vita politica e la mancanza di una guida rivoluzionaria, egli fu indicato come un eroe perdente, addirittura un «pellegrino del nulla».

«Matteotti, il più grande martire dell'antifascismo nella coscienza popolare, non era comunista», avrebbe dovuto però ammettere solo quattro anni dopo Palmiro Togliatti. Fu proprio nella trasfigurazione dell’eroe in martire antifascista che si sarebbero fatte più rilevanti le reciproche prese di distanza tra le culture politiche della sinistra: ognuna di esse aveva un proprio martirologio ed un autoreferenziale patriottismo di partito. La distinzione divenne palese e si cristallizzò dopo il 1947, quando Matteotti fu ascritto al martirologio socialista democratico.

L’ambiguità a destra

L’eredità irrisolta di Matteotti riguarda però anche le destre, di ieri e di oggi. Se non vi erano dubbi sulla figura di D’Annunzio quale personaggio coevo cui attribuire le doti dell’eroismo nazional-fascista, e se all’empireo dell’eroismo il fascismo nostalgico del secondo dopoguerra avrebbe ascritto i militi della Repubblica sociale italiana, alla tentazione di dissimulare la memoria di Matteotti quale permanente ingombro della narrazione postfascista, incasellandolo nella galleria indistinta dei “martiri della Patria”, non è sfuggito il provvedimento di legge con il quale, nell’estate del 2023, la maggioranza governativa ha assecondato le celebrazioni di questo centenario.

E del resto la dissimulazione continua. In occasione della commemorazione dell’anniversario svoltasi il recente 30 maggio, molti hanno apprezzato che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni abbia dichiarato che Matteotti fu «uomo coraggioso ucciso da squadristi fascisti». Gli studi storici hanno documentato molto di più: le responsabilità del nascente regime e di Mussolini in prima persona.

A lungo la pubblicistica nostalgica e neofascista ha scritto delle “teste calde”, fuori controllo, cui addossare le responsabilità dell’assassinio. No! Conosciamo esecutori e mandanti, moventi e depistaggi. La coscienza civile e democratica del paese non può accettare alcuna dissimulazione: l’assassinio di Matteotti fu il passaggio decisivo – di non ritorno – nella storia sia del fascismo sia dell’antifascismo.

Se la politicizzazione del mito e la sua sacralizzazione laica spogliarono Matteotti di una storia precisa, il paradosso è che il suo nome è entrato nell’odonomastica nazionale al pari delle figure principali dei “Patrioti Italiani”, concorrendo a disegnare il volto delle nostre città ma senza un effettivo riconoscimento della sua eredità politica e umana.

Quello che manca 

Cosa ci dice allora la presenza lungo la penisola di circa 2450 nomi di vie e piazze intestate a Matteotti (secondo la metodologia più affidabile che tramite le fonti digitali aiuta a creare mappe geolocalizzate)?

È la conferma che, nel quadro di una presenza declinante, rinvenibile soprattutto nell’occasione contingente di anniversari e celebrazioni, la sua valenza simbolica vale soprattutto nella sfera compensativa dell’odonomastica; quando invece sappiamo che sono la scuola e l’università, la stampa, la radio, le immagini, la televisione e Internet a modellare la percezione generale degli eventi passati e presenti.

A Matteotti deve essere dunque restituita la sua immagine veritiera. La sua difficile eredità – quando era in vita e non solo dopo la morte – continua a parlarci e a porci domande scomode sulla nostra storia e sulla natura della democrazia repubblicana.


Un’idea di Matteotti. Un secolo dopo (Marietti 1820, 2024, pp. 272, euro 17) è un saggio di Enzo Fimiani 

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