«Disonorevole Matteotti, volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregevolissimo ruffiano». Così il 3 maggio 1923 il Popolo d’Italia, giornale fondato da Benito Mussolini, avvertiva (con fare mafioso) il deputato socialista Giacomo Matteotti. «Sarà bene che egli si guardi, che se dovesse capitargli di trovarsi un giorno o l’altro con la testa rotta, ma proprio rotta, non sarà certo in diritto di dolersi».

Erano anni che Matteotti scontava la violenza dello squadrismo fascista, praticamente da quel fatale 1919, anno di fondazione del movimento dei Fasci di combattimento. Ma il quarantenne segretario del Partito socialista unitario (nato dalla scissione con i compagni massimalisti, ferocemente attratti da una rivoluzione proletaria tante volte minacciata ma impossibile da realizzare) non era uno sprovveduto e neppure un incosciente. Da organizzatore delle leghe contadine, aveva sostenuto le lotte bracciantili nel Polesine, era un uomo intraprendente (oltre che colto), dotato di grande carisma e di immenso coraggio. Da sempre contrario alla guerra (nel 1912 aveva persino preso le distanze dall’ala socialriformista del suo amico Filippo Turati, fin troppo morbido nel condannare l’impresa di Libia), quella di Matteotti era davvero rimasta una delle poche voci a incriminare l’anomalia di un governo affidato al capo di una milizia armata.

L’antipartito o l’antistato: nel suo profondo disprezzo per la democrazia parlamentare, il fascismo si era autoproclamato fin dalle origini pronto a sovvertire tutte le istituzioni liberali, nate dall’Unità d’Italia. E Mussolini, molto abile nell’infiammare le piazze solleticando nevrosi e paure nella società italiana (per poi presentarsi all’elettorato come il leader moderato, salvatore della patria), non aveva fatto mistero delle sue reali intenzioni: spazzare via gli avversari, annientarli, per instaurare una dittatura personale «sorta dalla piazza in contrapposizione al parlamento».

In pochi se ne erano accorti e molti avevano sottovalutato la gravità della situazione. Gaetano Salvemini aveva persino bollato il fascismo come una “carnevalata”, per poi cambiare opinione in corsa, dopo le bastonature a Giovanni Amendola, leader della democrazia liberale, e la distruzione della casa dell’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, a opera delle squadracce. Uno «Stato asservito al partito armato»: questa la creatura del duce Mussolini, al quale il re Vittorio Emanuele III aveva letteralmente regalato il potere dopo la farsa della marcia su Roma del 28 ottobre 1922 (un’abile messa in scena eversiva, con i fascisti entrati nella Capitale senza sparare un colpo). Per togliersi dai piedi gli oppositori e mettere a tacere le voci del dissenso, Mussolini aveva messo su una polizia segreta, la Ceka fascista, un’accozzaglia di ex arditi e delinquenti della peggior specie, finanziata dal partito, che non si era mai fatta scrupoli nel «bastonare e pugnalare dove necessario».

Lo avrebbe raccontato anni più tardi ai microfoni di Sergio Zavoli Arturo Fasciolo, segretario personale del Duce, intervistato in quel capolavoro di inchiesta giornalistica che è stata Nascita di una dittatura. Sono i sicari della Ceka fascista capeggiati dal toscano Amerigo Dumini a rapire e massacrare Giacomo Matteotti il pomeriggio del 10 giugno 1924. A Roma sono arrivati il 22 maggio per pedinarlo (come dimostrano i registri dell’Hotel Dragoni dove hanno alloggiato). Per giorni hanno studiato i movimenti del deputato, abituato a frequentare la Biblioteca della Camera per studiare i suoi interventi. «Eseguimmo il delitto con cieca disciplina dopo che ci fu garantita l’immunità penale».

Cesare Rossi lo scrive in un memoriale oggi conservato ai National Archives di Washington. Matteotti deve essere fermato non solo perché il 30 maggio ha denunciato il clima di violenze e intimidazioni con cui si è svolta la campagna elettorale del 6 aprile 1924.

Il deputato socialista sta infatti preparando un discorso che potrebbe provocare un terremoto: ha scoperto una rete di tangenti che lega la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, il partito fascista e la famiglia Mussolini. Quel discorso non lo pronuncerà mai. A noi resta l’esempio di un uomo innamorato della democrazia parlamentare fino al punto di sacrificare la vita in nome di quello Stato, fatto di contrappesi e senza uomini forti al comando, che abbiamo riconquistato con la Repubblica e festeggeremo il 2 giugno.

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