Possiamo dirlo con una formula della filosofia politica contemporanea: siamo tutti free riders, viaggiatori dei trasporti pubblici che non pagano il biglietto, egoisti radicali che si spostano a spese della comunità senza versare il proprio contributo. O, ancora meglio, recitare una poesia giovanile di Umberto Saba, Meditazione: «Poco invero tu stimi, uomo, le cose. / Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa / sembrano poco a te, sembrano cose / da nulla, poi che tu nascevi e già / era il fuoco, la coltre era e la cuna / per dormire, per addormirti il canto. / Ma che strazio sofferto fu, e per quanto / tempo dagli avi tuoi, prima che una / sorgesse, tra le belve, una capanna; / che il suono divenisse ninna-nanna». Perché un ragionamento simile si applica perfettamente anche alla democrazia. Godiamo quotidianamente dei diritti, delle libertà e delle protezioni che essa ci assicura: eppure, il più delle volte, la diamo per scontata.

Diritti e libertà hanno una lunga storia, spesso travagliata. In Italia tuttavia c’è un passaggio che conta persino più degli altri: la lotta armata contro il regime fascista da cui è sorta la Costituzione repubblicana del 1948. Veniamo da lì: anche quando non ce lo ricordiamo.

1945-2025

Certo, ottant’anni cominciano a essere parecchi. La memoria si offusca e soprattutto fatica a raggiungere i più giovani, come succede con ogni grande evento storico. In questo il Risorgimento ha molto da insegnarci. Sfogliando le riviste di fine Ottocento ci si imbatte infatti in una sequenza di geremiadi sulla freddezza degli scolari verso i grandi fatti di trent’anni prima che sembrano scritte ieri. Come scrisse un provveditore agli studi: «Chi ha qualche esperienza di scuole si è trovato tante volte al caso d’accennar nomi, date, avvenimenti del Risorgimento italiano e veder gli alunni non meno gelidi e indifferenti che si trattasse dell’impero dei Medi e degli Assiri».

Ieri il Risorgimento e l’Unità, oggi la Resistenza e la Costituzione. Il passato come qualcosa che è trascorso una volta per tutte, non come fondamento del presente e promessa di futuro: è questa imbalsamazione della memoria che inquieta giustamente storici, professori, pedagogisti, politici, cittadini. Mentre, sull’altro fronte, galvanizza una destra radicale che punta esplicitamente le sue fiches sulla normalizzazione degli orrori di un secolo fa nel nome di una presunta cesura irreversibile.

Dai patrioti ottocenteschi – o almeno dai migliori di loro, come il cronista dell’impresa dei Mille Giuseppe Cesare Abba – possiamo imparare se non altro il senso dell’umorismo: «Oh, perché nelle paci fatte con l’Austria, non venne in mente a nessuno di patteggiare che essa dovesse per obbligo, ogni decina d’anni, mandare in qualche luogo d’Italia un po’ di quel suo governo politico che usava nel Lombardo Veneto, e lo mettesse in azione, per ricordo, un quindici giorni, e poi se lo ripigliasse via? Si parla così per mesta celia, e si potrebbe dire altrettanto di tutti i vecchi governi ducali, papali, borbonici. Le generazioni nuove imparerebbero almeno che bello stare fu quello di altri tempi».

Meste celie a parte, il problema è reale. C’è la scuola: con la storia e con l’educazione civica. E c’è la televisione di Stato, dove per esempio, tra il 15 e il 25 aprile, RAI 1 si appresta a mandare in onda una (notevole) miniserie per adolescenti di Susanna Nicchiarelli, Fuochi d’artificio, tratta dall’omonimo romanzo partigiano di Andrea Bouchard. Eppure nemmeno questo basta. Per riprendere l’immagine del provveditore di cento e passa anni fa, l’informazione va benissimo per le campagne dei Medi e degli Assiri ma è solo il punto di partenza quando entrano in gioco i principi dai quali, ancora oggi, traggono linfa le nostre democrazie.

Una festa come quella organizzata a Milano presso la Fondazione Feltrinelli dal 10 al 13 aprile – I giorni della Resistenza – prova a rispondere a questa esigenza. Non un convegno di studi. Non un happening culturale. Non una convention politica. Piuttosto, una maratona di quattro giorni che deve qualcosa a ciascuna di queste tipologie – sarà l’occasione di ascoltare alcuni dei maggiori storici italiani e stranieri della Resistenza, nessuna arte è stata trascurata nel programma, le attività più varie sono tenute assieme da una identica passione civile – ma che punta al tempo stesso a essere anche qualcosa di diverso.

La spaghettata 

Una festa, per l’appunto. A cominciare dalla spaghettata antifascista che chiuderà la prima giornata, e che è un vero reenactment della pastasciutta offerta dal padre dei fratelli Cervi la sera del 25 luglio 1943 per celebrare tutti assieme in strada la caduta di Mussolini – un classico delle commemorazioni partigiane. Come reenactment sono pure lo spettacolo Se questo è Levi e i laboratori per ragazzi dei Fanny & Alexander, realizzati con il metodo della eterodirezione per riportare tra noi il grande narratore piemontese e far rivivere le grandi scelte di allora a piccoli gruppi di studenti.

Nella Resistenza l’Italia odierna ha molto più di un inizio (il voto alle donne, la repubblica, la carta fondamentale dello Stato): lì stanno le sue radici ideali. E a quelle radici, affinché non appassiscano, occorre tornare periodicamente. Una delle idee chiave di Niccolò Machiavelli nei Discorsi sopra la deca di Tito Livio è che «a volere che una setta o una republica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio»: risvegliare nei cittadini la virtù originaria che con il tempo finisce inevitabilmente per intiepidirsi, quando le leggi vengono rispettate sempre meno e, a poco a poco, i costumi prendono a corrompersi. Bisogna allora fare, nello spazio della polis, come San Francesco e San Domenico: i quali, scrive Machiavelli, «con la povertà e con lo esempio della vita di Cristo» riportarono nei petti dei credenti una fede che già da tempo vacillava a causa della dissolutezza della curia.

Come tutte le istituzioni, per durare, anche le democrazie devono essere «ritirate spesso» verso il loro «principio»: nel caso dell’Italia la lotta partigiana. Discuterla, ricordarla, persino rimetterla in scena sono allora altrettanti modi per ridar fiato a una democrazia oggi sotto attacco in tutto il mondo. Purché, naturalmente, non si scambi questo omaggio per una sfilata nostalgica, una sorta di corteo del Palio di Siena della guerra per bande. La Resistenza ci serve anzi proprio come antidoto contro la pigrizia: per ritrovare lo slancio esistenziale e il coraggio di immaginare il futuro come nel 1945 fecero le donne e gli uomini usciti da venti mesi di guerra civile e da venti anni di dittatura fascista.

Le lotte di ieri per pensare tutti assieme il nostro domani: di ciò si tratta, prima che sia troppo tardi. In questo ottantesimo anniversario della Liberazione se ne sente specialmente il bisogno. Noi ci proviamo intanto alla Fondazione Feltrinelli con I giorni della Resistenza.


Dal 10 al 13 aprile 2025 si terrà presso la Fondazione Feltrinelli di Milano (Viale Pasubio 5) il festival I giorni della Resistenza curato da Gabriele Pedullà: quattro giorni di dibattiti, lezioni, letture, musica dal vivo, cinema, teatro, poesia, laboratori per ragazzi, mostre, visite all’archivio della Fondazione e passeggiate storiche. Partecipano, tra gli altri: Andrea Argentieri, David Bidussa, Chiara Colombini, Victoria De Grazia, Tolja Diokovic, Fanny & Alexander (con lo spettacolo in tre parti Se questo è Levi), Giuseppe Filippetta, Filippo Focardi, i Frottolisti Anonimi, Laura Gnocchi, Bedo Guidetti Lo Stato Sociale, Gad Lerner, Maysoon Majidi, Anna Mastromarino, Emiliano Morreale, Susanna Nicchiarelli (con un’anteprima della miniserie televisiva Fuochi d’artificio), Giulio Pantalei, Santo Peli, Alberto Pezzotta, Sandro Portelli, Alessandro Santagata, Benedetta Tobagi, Giorgio Van Straten e Olivier Wieviorka. Chiude la festa la proiezione della copia restaurata de Il brigante di Renato Castellani (1960), dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto. Il programma completo è accessibile qui 

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