Facendo i conti del droghiere, Il Gladiatore II sul mercato internazionale ha già incassato nel primo weekend 87 milioni di dollari. Con tre milioni e 700mila è in testa anche in Italia, ma senza strafare. Negli Usa, dove il film esce il 22 novembre, quasi a ridosso del Thanksgiving Day, si punta a un debutto da 65 milioni di dollari.

Gli oltre 465 milioni incassati ventiquattro anni fa dall’originale, a fronte di un budget di 103, non sono però nell’ordine delle previsioni. La Paramount rischia grosso perché i costi di produzione del sequel hanno sforato di brutto i 165 milioni inizialmente previsti. Il valzer delle cifre va preso con le molle, ma le chiacchiere accreditano tra i 250 e i 310 milioni, compreso l’incentivo fiscale record – 47 milioni – garantito dal governo di Malta, dove Ridley Scott ha girato gran parte del film.

È improbabile che sul box office incidano le obiezioni dei cultori di storia romana, che disapprovano in primis il più insidioso villain del film, il Macrino mercante d’armi e di gladiatori interpretato da Denzel Washington. Macrino, puntualizzano i bene informati, è il nome di un imperatore vissuto nel secondo secolo d.C., dopo il regno di Settimio Severo, di origini algerine ma di pelle ambrata.

Non so voi, ma personalmente considero lo scrupolo filologico irrilevante specie in fatto di etnia. Più ancora del nuovo Cencelli inclusive dell’Academy, Bridgerton ha abolito le barriere razziali nella rappresentazione di consumo, e tutti gli (o le) addicted agli Hallmark Movies, il romanticume sdolcinato che infesta le piattaforme, vi spiegheranno che il riciclaggio correct di facciata è stato fulmineo. Parlo con cognizione di causa: gli Hallmark Movies sono il mio sonnifero e li raccomando di cuore, pensionate Valium e Melatonina.

Conto che il passaparola, esaurita la sbornia iniziale, farà giustizia dell’epica impresa di un Ridley Scott entrato nel mito con Blade Runner ma, come la maggioranza di noi alla soglia degli 86 anni, non più a prova di errore. Può vantare un unicum di carriera: ha fatto il film più sublime sull’età napoleonica, I Duellanti, e anche il più brutto, Napoleon.

Guarda caso lo sceneggiatore di Napoleon, David Scarpa, firma anche questo Gladiator II, il che consente almeno di ripartire equamente i demeriti. Armati di una robusta dose di sense of humour però si può scoprire nel sequel una miniera di comicità. È uno sword-and-sandal (in Italia per il genere è invalso il termine più sbrigativo di “sandaloni”) che sfida le più grossolane amenità in toga e càliga sfornate dalla Cinecittà dei tempi d’oro.

Le sponde rocciose di Ostia

Aidan Monaghan

Senza il carisma di Maximus-Russell Crowe l’intera faccenda partiva già zoppa, e tamponare la falla chiamando in soccorso per i ruoli-spalla Denzel Washington più Pedro Pascal, consacrato da The Last of Us e massima superstar latina di oggi, non è sufficiente. Serve un eroe credibile per cui tifare. Tant’è che per dare pollice alzato al film bisognerebbe svignarsela dopo il breve e pregevole recap iniziale.

È un amarcord del kolossal Oscar del 2000, una epitome di Maximus che estende, graficamente, il logo storico della Scott Free Productions. Chi resta in sala – hai pur pagato il biglietto! – incappa subito nella parodia dell’imperialismo romano nel nord Africa, con gli aggrediti Numidi che a tempo perso citano Tacito (l’ovvio Desertum fecerunt et pacem appellaverunt banalizzato, che altro?).

Tra sunti da sussidiario delle elementari e flash più che vagamente omofobici seguiamo il numida combattente Annone (un Paul Mescal con l’aria del protagonista per caso) deportato in catene al porto di Ostia, che com’è noto è incastonato tra sponde rocciose.

Parlo di omofobia perché i tiranni gemelli, gli imperatori Geta (Joseph Quinn) e Caracalla (Fred Hechinger) sintetizzano i peggiori stereotipi sulla gaytudine, e le mossette artificiose di Thraex (Tim McInnerny) ti catapultano fatalmente nei dintorni di Notting Hill. Con tutto il rispetto per le esigenze dell’entertainment, i babbuini zannuti, il rinoceronte equestre e gli squali nel Colosseo opportunamente allagato per condire di sangue umano lo spettacolo slittano senza preavviso nel fantasy più commerciale. Guai se le immagini generate al computer ti prendono la mano.

Una Roma da videogame

Cuba Scott

L’arbitrio storico è esilarante. Il generale Marcus Acacius di Pedro Pascal è un dissidente che progetta un colpo di stato per riportare al potere legittimo il Senato, nota istituzione democratica. Si sciorinano citazioni da Virgilio e Cicerone buone per le versioni delle medie. Il barbaro Annone – inutile l’allarme spoiler, è la scontata e sola ragione del sequel – si rivelerà Lucius, figlio di Russell Crowe e di Connie Nielsen, reduce illustre del vecchio film e prova vivente che i reggiseni erano d’uso corrente nella Roma del II secolo d.C. Lucius è un bossiano ante-litteram, nel senso della Lega Nord primigenia: «Questa città avvelena tutto quello che tocca», proclama, «è una città infetta».

L’effetto è irresistibile, come le canne di oppio che Lucius si fa quando gli ricuciono le ferite. Era già roba legale? Il medico strafattone che lo cur – padronissimi di non crederci, ma è da sceneggiatura – ha una moglie londinese. Wow, tutto si spiega. E perché le truppe fedeli ad Acacius, confinate a Ostia, non prendono banalmente la metro? È una Roma da videogame, con Caracalla senza le Terme ma fuori come un balcone, pronto a farsi scannare da un Denzel Washington-Macrino machiavellico e infido.

È l’ironia sottile di Denzel, in realtà, a demolire l’impatto del film: fa il verso a se stesso quando interpreta Shakespeare, da Molto rumore per nulla a Coriolanus fino al Macbeth di Joel Coen e all’Othello che è in procinto di portare in scena. È il primo a non credere, platealmente, a quello che fa.

Il fantasma di Totti

Molto si può macinare su questo iperbolico azzardo senile di Ridley Scott. Se l’intento era guardare al presente, il risultato è risibile. Dice il regista che la situazione in cui si trova Lucius «è una specie di folle calderone di potere, fuori controllo». «I gladiatori di oggi», sostiene, «sono i politici: cerco di farmene venire in mente qualcuno di buono». Qui da noi però lo slogan “Forza e Onore” di Lucius, – stampato anche sull’asciugamano-gadget promozionale del film – suona curiosamente filogovernativo.

Quando impugna il gladio del babbo e ne indossa la corazza di cuoio, proclamandosi Principe di Roma, si materializzano automaticamente gli spettri di Suburra e delle gang metropolitane de noantri. Quando sfracella le guardie pretoriane per liberare mammà incatenata a un palo infiorato nell’arena, rivedi in farsa la Deborah Kerr di Quo Vadis?. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché le rovine della Roma imperiale, inquadrate di scorcio, erano già rovine 19 secoli fa.

E l’inspiegabile culto di massa che il gladiatore da stadio scatena di colpo tra amici e nemici evoca fatalmente i fasti del nostrano Pupone, alias Francesco Totti. Non gli occorreva vantare Marco Aurelio per nonno. Sarà uno sguardo local, ma visto dai nostri lidi, colpevolmente ignari delle proverbiali rupi scoscese di Ostia, Il Gladiatore II sembra una barzelletta scipita.

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