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Sinora le analisi della serie di Zerocalcare Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) si sono soffermate sulla visione della lotta politica, lo sguardo sulle periferie, il senso di colpa dell’io narrante per il successo che lo allontana dagli amici del quartiere
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Ma in realtà la serie è una lunga (per quanto implicita e simbolica) riflessione sul ruolo degli intellettuali critici di fronte alle complessità del mondo contemporaneo
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A più di mezzo secolo dalle riflessioni di Calvino nel Barone rampante, la diagnosi di Zerocalcalcare è molto più pessimistica: l’intellettuale critico non può che fallire
Italo Calvino scrisse il Barone rampante nel 1957. Dopo aver lasciato il Pci, in quell’opera Calvino rappresentava l’intellettuale a mezz’aria fra il cielo degli ideali (l’adesione a un’ideologia) e la terra della lotta politica concreta (l’impegno in un partito). Oggi le diagnosi sul ruolo degli intellettuali si annidano in luoghi inaspettati.
La serie Netflix di Zerocalcare Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) è uno di questi. La serie ha avuto meritato successo. Sinora le analisi si sono soffermate sulla visione della lotta politica, lo sguardo sulle periferie, il senso di colpa dell’io narrante per il successo che lo allontana dagli amici del quartiere.
Intellettuale marginale
Ma in realtà la serie è una lunga (per quanto implicita e simbolica) riflessione sul ruolo degli intellettuali critici di fronte alle complessità del mondo contemporaneo. Che Zerocalcare sia una sorta di intellettuale marginale è evidente da subito: vive ancora nel quartiere dove è cresciuto, in una zona periferica di Roma, ma è proiettato in altri ambienti e verso possibilità precluse ai suoi amici e vicini.
La voce narrante che rimugina, tesse metafore, introduce dilemmi etici è quella di Zerocalcare e soprattutto nei molti auto-ironici momenti di spiegazione (memorabile quello sul perché usare “nazisti” invece che “fascisti”), è evidente la distanza fra il narratore e i personaggi. Ma questa marginalità diventa sempre più drammatica, sino al finale (che ovviamente qui non rivelerò).
Il mestiere di Zerocalcare, per cui si sente in colpa e viene invidiato da amici e conoscenti, è un lavoro vocazionale, non irreggimentato, svolto in un isolamento scelto e difeso: il personaggio di Zerocalcare dice a più riprese di stare sempre a casa, di non vedere nessuno, di passare il tempo a disegnare senza troppo costrutto.
La voce narrante di una storia corale e tutta di esterni s’incarna in un personaggio isolato, che vive sempre all’interno: se non è una torre d’avorio questa, che cosa lo è? Peraltro, l’Armadillo, che (com’è noto) rappresenta la coscienza (più o meno) morale di Zerocalcare, a un certo punto gli consiglia di buttarsi nel lavoro, così da non pensare ai problemi che gli rimordono la coscienza. La professione di Zerocalcare è al tempo stesso uno strumento di osservazione critica della sua realtà e un potente meccanismo di rimozione.
L’impotenza epistemologica
C’è stata una polemica su una frase dello stesso Zerocalcare, in cui egli sosteneva che di certe cose non dovrebbe parlare chi non abbia titolo a farlo. Non è un elogio della competenza di presunti esperti, né snobismo. È una diagnosi sull’impotenza epistemologica degli intellettuali, chiara in moltissimi momenti della serie. Per esempio, l’incapacità del protagonista di prendere veramente una posizione (non partecipa alla trasmissione televisiva dove avrebbe dovuto esprimere tesi controverse), ma anche la ripetuta impossibilità di dare voce alla posizione degli altri comprendendola veramente – siano quelli della propria parte, o quelli che, pur condividendo le origini nella borgata, sono passati all’opposta fazione (Cesare).
A Zerocalcare si rimprovera sempre di non voler parlare in vece degli altri, nella serie, e di non avere titolo a farlo. Egli è inetto alla lotta: inetto fisicamente, come si vede in una lunga scena dell’ultima puntata, ma forse anche epistemologicamente (con ovvia simbologia)?
La serie inanella una successione di occasioni mancate, in cui Zerocalcare non riesce a fare quello che ci si aspetterebbe da lui: far sentire la propria vicinanza a Cesare, rinchiuso in comunità, accorgersi del tormento di Sara, occuparsi veramente dei migranti, ascoltando la loro viva voce. Ma ancora una volta l’impressione è che le occasioni mancate siano dell’intellettuale, più che dell’uomo. Si noti che tutta la storia che costituisce la serie è un racconto, che Zerocalcare fa agli inquirenti, o alla propria coscienza (lascio il dubbio per chi non ha ancora visto la serie).
Un racconto della realtà, un racconto dal destinatario non chiaro: se è una testimonianza alla polizia è un conto, se è un flusso interiore di fronte alla propria coscienza è un altro. Un racconto il cui statuto epistemologico problematico è dichiarato: il personaggio Zerocalcare ha partecipato a degli scontri, ma la sua faccia appare pulita, senza ferite e lividi. È un errore, rivelato e auto-ironicamente difeso, nell’ennesima meta-spiegazione di una serie che è tutto un meta-livello. Ma come non pensare che l’errore sia inevitabile e che tutto il messaggio sia che lo sguardo di Zerocalcare, lo sguardo dell’intellettuale critico, eccentrico, disinteressato, non possa che essere pieno di errori?
La serie dichiara la marginalità della borgata, paragonata alla Fossa delle Marianne, un abisso oscuro, lontano dal centro delle cose, rappresentato dal centro di Roma. La marginalità della borgata è la marginalità dello sguardo di Zerocalcare, che è marginale però anche rispetto alla borgata stessa e ai suoi problemi. E si tratta di una cecità e di una marginalità inevitabili: Cesare, dice Zerocalcare, è come una Euridice tornata da sola dagli inferi. Ma, d’altra parte, Euridice non può che tornare da sola, se torna. O meglio, se Orfeo-Zerocalcare avesse tentato l’impresa, avrebbe rischiato, guardandolo, di consegnare irrimediabilmente Euridice-Cesare all’inferno della comunità di ricupero.
L’impossibilità dell’intellettuale critico
A più di mezzo secolo dalla soluzione di Calvino (l’intellettuale può fare il suo mestiere solo stando a mezz’aria, mantenendo la giusta distanza), la diagnosi di Zerocalcalcare è molto più pessimistica. L’intellettuale critico non può che fallire, non può vedere le rivendicazioni e i bisogni di quelli che vorrebbe salvare. Zerocalcare constata la fine del sogno dell’egemonia intellettuale, o almeno della sua versione illuministica.
Forse per Zerocalcare l’unica critica dello status quo può derivare solo dalle micro-pratiche, come nella filosofia di Davina Cooper (Utopie quotidiane. Il potere concettuale degli spazi sociali inventivi, ETS, 2017) o nella post-critica di Mariano Croce (Post-critica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, 2019). Questo mondo non ci renderà cattivi, certo. Ma ci renderà muti, forse.
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