- Prima fase dell’aggressione tedesca all’Urss. La gente di Kiev assiste all’entrata trionfale nella loro città delle truppe naziste.
- A quell’epoca Anatolij Kuznecov, l’autore di questo libro, ha 12 anni. Figlio di madre ucraina e di padre russo, Anatolij è nato a Kiev nel 1929. Trascorre gli anni della guerra in una casa a poca distanza da Babij Jar. Appena fuori Kiev, Babij Jar è una enorme fossa naturale di morbida terra sabbiosa di un bianco candido. Qui avviene uno dei più grandi massacri della storia. Siamo nel settembre del 1941.
- Kuznecov scrive il suo libro vent’anni dopo essere stato testimone dei tragici avvenimenti cui ha assistito. Il libro, un capolavoro, è stato pubblicato nel 1966 dalla rivista “Junost” dopo essere stato sottoposto a brutale censura. L’edizione Adelphi del 2019 è quella integrale di Babij Jar, apparsa nel 1970 in seguito alla fuga di Anatolij Kuznecov, morto a Londra nel 1979, in occidente.
Cos’è Babij Jar? «Era un burrone enorme, si potrebbe perfino dire grandioso – profondo e ampio come una gola di montagna. Se lanciavi un grido stando sull’orlo di una parete, sul versante opposto l’avrebbero a malapena sentito».
Il burrone si estendeva tra tre quartieri di Kiev: Luk’janovka, Kurenevka e Syrec, e le sue pareti erano scoscese e in alcuni punti addirittura verticali. In mezzo, sul fondo, scorreva un limpido ruscello. C’era un ragazzino che conosceva quel ruscello come le sue tasche, dato che c’era già stato mille volte a farci il bagno con gli amici. Un giorno sta per tornarci con il nonno quando incontra un vecchio un po’ malmesso e gli chiede: «È qui che hanno sparato agli ebrei o più avanti?».
Il vecchio si ferma, lo squadra dalla testa ai piedi e dice: «E di russi quanti ne hanno ammazzati qui? E di ucraini e di ogni nazione?». E se ne va.
Cenere internazionale
Nonno e nipote proseguono fino a quando non si accorgono che la sabbia è tutta cosparsa di sassolini bianchi. Il ragazzino raccoglie uno dei sassolini per guardarlo meglio: «Era un pezzettino d’osso bruciacchiato grande quanto un’unghia, bianco da un lato e nero dall’altro». Il ruscello aveva trascinato i sassolini via con sé. «Abbiamo dedotto che agli ebrei, ai russi, agli ucraini e alla gente di altre nazionalità avevano sparato più a monte».
I due continuano a procedere fino a un punto dove il burrone si restringe. Lì, all’improvviso, la sabbia diventa tutta grigia. «Di colpo ci siamo resi conto che stavamo camminando su cenere umana». Procedendo ancora, dove il burrone si allarga nuovamente, su uno dei pendii laterali, incontrano tre pastorelli di sette, otto anni che portano a spasso delle capre e smartellano dei blocchi di carbone. Si avvicinano.
«Che state facendo?» chiedono.
«Guarda!».
Uno di loro trae dalla tasca una manciata di minuzzoli luccicanti e sporchi, che fa saltellare sul palmo. Sono anelli, orecchini, denti d’oro, parzialmente fusi insieme. Continuando a gironzolare lì intorno, nonno e nipote trovano ossa intere, un teschio fresco e altri grumi di varia natura. Il ragazzo raccoglie un blocco di circa due chilogrammi, se lo porta a casa e lo conserva perché è la cenere di molte persone in cui tutto si è rimescolato, «una sorta di cenere internazionale».
È in quel momento che il ragazzo decide che bisogna prendere nota di tutto fin dall’inizio, «così come era stato veramente, senza tralasciare e senza inventare nulla».
Arrivano i tedeschi
Il ragazzo si chiamava Anatolij Kuznecov e aveva 12 anni. Tutto era iniziato il 19 settembre del 1941, con un messaggio dell’Informbjuro dell’Unione sovietica che annunciava che dopo molti giorni di combattimento le truppe russe abbandonavano Kiev. Tutti li avevano visti fuggire e correva voce che fossero entrati di corsa nelle case a implorare per avere degli abiti civili. Le donne avevano fornito loro i vestiti vecchi.
Un attimo dopo, ecco che arrivano i tedeschi. È la vicina Elena Pavlovna, tutta eccitata, a informarli: «Che cosa fate lì dentro? Sono arrivati i tedeschi! Il potere sovietico è finito».
I tedeschi sono giovani, sono belli, sono puliti e sono freschi, infatti si spostano sui mezzi, non a piedi come i russi. E appena li vede, con la sua tipica incautela, il nonno esulta: «Sììì… Dio sia lodato, è finito questo regime di pezzenti, e io che ormai non ci speravo più… Ora si comincia a vivere».
Poco dopo ecco che il primo soldato tedesco si presenta a perquisire la casa, cercando qualche soldato russo imboscato. Russi non ce ne sono, ma il soldato vede e indica, con disprezzo, la bandiera rossa (quella da appendere al portone nei giorni di festa).
Immediatamente il nonno la strappa dall’asta e la porge alla nonna perché la bruci nella stufa. Arriva un altro soldato, discutono e se ne vanno in tutta fretta.
La nonna, più lungimirante, a quel punto chiama Anatolij e gli dà la bandiera: «Forza, Sali in soffitta e nascondila, avvolgila in qualche giornale».
«Ma a che ci serve, nonna?».
«Non si sa mai, figliolo… E poi, vedi, anche i tedeschi hanno bandiere rosse».
Un guazzabuglio
Anche il Comando supremo delle forze armate tedesche adesso fa i suoi comunicati e il 20 settembre comunica che sulla cittadella di Kiev da stamattina sventola la bandiera di guerra tedesca. Poco tempo prima un volantino tedesco era caduto sul tetto di casa loro e il nonno aveva mandato Anatolij a recuperarlo.
Il volantino diceva che la Germania era chiamata a annientare i bolscevichi per instaurare un sistema nuovo e giusto in cui “chi non lavora non mangia” ma “chi lavora onestamente riceve quanto merita”, e che nelle terre liberate il burro costava dieci copechi la libbra, il pane sette copechi, e l’aringa tre. Il nonno, sentendolo come un messaggio indirizzato personalmente a lui, aveva imparato a memoria il volantino, dopodiché l’aveva fatto in minuscoli pezzettini.
Con l’arrivo dei tedeschi dunque sembra che tutto vada per il meglio, ma non sarà così. Passeggiando per Kiev, Anatolij legge una scritta che lo lascia perplesso: “Giudei, ljachi e moskali sono i più feroci nemici dell’Ucraina!”
«Davanti a quel manifesto, per la prima volta in vita mia mi sono domandato chi ero veramente. Mia madre era ucraina, mio padre russo. Metà ucraino, metà moskal’, ero dunque nemico di me stesso. E poi, di male in peggio. I miei migliori amici erano Surka Matzah, per metà ebreo, cioè giudeo, e Bolik Kaminskij, per metà polacco, cioè ljach. Un dannato guazzabuglio. Ho informato subito la nonna. “Non farci caso, figliolo… L’hanno scritto degli imbecilli”. Imbecilli, d’accordo. Ma non lo avevano scritto, bensì stampato».
Non li deportano
I tedeschi, appena entrati in città, si erano da subito acquartierati nel Krescatik, il viale centrale di Kiev: il 24 settembre, fra le tre e le quattro del pomeriggio, l’edificio del comando tedesco salta in aria. In poco tempo tutto il Krescatik salta in aria in un immenso rogo, i russi, prima di ritirarsi, l’avevano tutto minato. Molti tedeschi moriranno nelle esplosioni e nei roghi che le seguono.
Questa operazione «aveva anche un’altra finalità, più sinistra: esasperare i tedeschi affinché, inferociti, si togliessero i guanti bianchi nel trattare la popolazione. La sicurezza di stato sovietica provocava i tedeschi alla spietatezza. Tanto più che in materia di spietatezza erano buoni allievi. E i tedeschi hanno abboccato».
Già dalla mattina del 29 settembre è fatto obbligo a tutti i giudei della città di Kiev di presentarsi alle 8 del mattino all’angolo tra via Mel’nikovskaja e via Dochturovskaja; chi non si presenta e venga trovato altrove verrà fucilato. Anatolij corre a guardare la lunga marcia di ebrei poveri che si raccolgono presso i tedeschi, e così passa la giornata. Appena torna a casa, vede il nonno in mezzo al cortile, che tende l’orecchio per ascoltare il rumore degli spari.
«Sai,» dice sconvolto «non li deportano mica. Li ammazzano».
Racconti in mezzo alla guerra
Per giorni e giorni, da quel momento in poi, da Babij Jar arrivano continue, in modo ritmico, le scariche di mitragliatrice. Nei giorni seguenti Anatolij si chiede se siano esercitazioni.
«Ma quale esercitazione!» grida lamentosamente il nonno. «Ne parla già tutta Kurenëvka, qualcuno si è arrampicato sugli alberi, ha visto. Viktor Makedon è arrivato di corsa: accompagnava la moglie ebrea. Si è salvato a stento. Madre di Dio, Regina del cielo, che cos’è mai, perché l’hanno fatto?».
In poco tempo seguono i coprifuoco, gli arresti di comunisti e attivisti sovietici: bastava una delazione, senza alcuna verifica. Poi bisogna bruciare gli attestati, i libri, i ritratti. Si arrestava per una bandiera sovietica o per un ritratto di Stalin dimenticato in casa.
È diventato popolare il detto: «Prima i giudei, gli zingari poi, e adesso, ucraini, toccherà pure a voi». Adesso arriva la fame, un chilo di pane al mercato nero costa un mese di stipendio. E così si susseguono massacri, sparizioni, fame, bombardamenti e altre disgrazie fino al ritorno dei russi, la liberazione.
Ma il grande pregio del libro Babij Jar, Adelphi, forse perché, come Kuznecov ricorda, è stato scritto a partire dal diario di un ragazzino che a inizio guerra aveva dodici anni, con l’intento di dire soltanto la verità che si è potuta vedere con i propri occhi, al racconto dei massacri si alternano altri racconti, come gli espedienti e i piccoli commerci che si tentano per riuscire a portare qualcosa da mangiare, e i favolosi incontri con strani personaggi, tra tutti un singolare macellaio che fa salsicce di cavallo. Tanto che a volte sembra che a parlare sia una specie di Huckleberry Finn russo-ucraino nel mezzo della Seconda guerra mondiale.
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