Dal 1961 ad oggi, il consumo di pesce è andato costantemente ad aumentare, tanto che al momento il mercato di importazione europeo ha un valore di oltre 40 miliardi di euro, secondo per volume solo a quello della Cina
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Esiste un momento dell’anno dopo il quale l’Europa dipende di fatto dalle importazioni estere di pesce, molluschi e crostacei. Si chiama Fish Dependence Day e quest’anno è cascato il 7 luglio. Questo problema di natura economica e sanitaria nasce dall’impossibilità di far coincidere domanda e offerta a causa della nostra dieta alimentare, del sovrasfruttamento degli stock ittici e delle rigide regolamentazioni imposte dalla Commissione europea per ridurre lo sforzo della pesca.
Dal 1961 ad oggi, il consumo di pesce è andato costantemente ad aumentare, tanto che al momento il mercato di importazione europeo ha un valore di oltre 40 miliardi di euro, secondo per volume solo a quello della Cina. Il calcolo della sostenibilità varia tra gli stati membri: nazioni senza accesso al mare, come l’Austria, esauriscono le riserve già a gennaio, mentre i Paesi scandinavi riescono a soddisfare la domanda quasi tutto l’anno.
«Il punto è che il pescato locale svedese non è di fatto più sostenibile di quello importato». A parlare è Alessandro Buzzi, Global Tuna Lead presso Wwf. Secondo l’esperto la discussione interessa orizzontalmente tutti gli stock, anche quelli accuratamente monitorati come il tonno rosso e il salmone.
La pesca è infatti l’ultima delle grandi attività umane che, teoricamente, preleva biodiversità da stock selvatici. Eppure, oltre il 50 per cento dei consumi oggi proviene da acquacoltura, la cui produzione ha un altissimo costo proteico. «Per crescere i pesci dipendono da farine di pesce o di soia». Il salmone che mangiamo ha un indice di conversione limitato perché non è un animale alla base della catena alimentare, ma al vertice: «È come ingrassare un leone con polpette e bistecche: ecologicamente non ha senso».
L’inchiesta di Irpi Media
Ad interessarsi del tema è stata anche Irpi Media, periodico italiano dedicato al giornalismo d’inchiesta che nel 2020 ha pubblicato l’indagine Tonno nero. Il lavoro mirava ad individuare quali e quante quote di tonno rosso, il più pregiato al mondo, fossero assegnate dalla Commissione internazionale Iccat, la stessa che ha creato e reso obbligatorio il sistema di osservatori indipendenti a bordo delle singole barche. Il meccanismo è stato introdotto nel 2009 per poter risanare gli stock ormai quasi spopolati dalla pesca industriale.
Secondo il co-direttore di Irpi, Giulio Rubino «il risultato di queste politiche, che pure hanno funzionato per aumentare lo stock di tonno rosso, è la creazione di una struttura industriale abbastanza esclusiva, in cui pochissimi attori detengono di fatto il monopolio del controllo della pesca del tonno rosso nel Mediterraneo». Le preoccupazioni vertono principalmente sulle connessioni profonde tra il Ministero e l’Iccat, «i cui metodi di assegnazione per la formazione degli osservatori sono di fatto cambiati annualmente, in modo da poterli assegnare sempre alla stessa azienda, violando dunque il principio di rotazione». Di conseguenza, per quanto è oggettivo che gli stock di tonno siano aumentati, è anche purtroppo drammaticamente difficile capire quanta pesca illegale continui a esserci nei nostri mari. E non si tratta certo di piccole imbarcazioni che occasionalmente vendono del pesce al ristorante locale, «ma di quegli attori che pescano tonnellate di tonni vivi per poi rivenderlo alle fattorie di ingrasso a Malta, in Spagna, in Croazia, che poi lo rivenderanno al mercato giapponese a prezzi sproporzionati».
La situazione in Norvegia
Se poi ci spostiamo nel nord Europa la situazione non appare certo più rosea. Due giornali norvegesi hanno unito le forze per indagare, anche grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale, sulle anomalie nei registri di pesca nazionali. Il modello, che ha analizzato in totale oltre cinque milioni di pesche per un periodo di 20 anni, ha dimostrato senza ombra di dubbio l’inconciliabilità della pesca norvegese con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite.
Per Rune Ytreberg, uno degli autori dell’inchiesta «la distribuzione della ricchezza derivante dalle attività di pesca dimostra che sempre meno persone riescono a entrare nel settore a causa della concentrazione delle quote su un numero ristretto di grandi navi da pesca». L’indagine ha inoltre dimostrato come la pesca intensiva e l’uso improprio delle reti da strascico danneggino gli habitat marini, anche data la mancata registrazione delle catture.
Un problema globale
La situazione va vista in termini globali. Con l’aumento della popolazione mondiale e la conseguente domanda di proteine, non è sufficiente aumentare la produzione interna: gli stock sono al limite. L’unica soluzione, secondo Buzzi, «è diminuire il consumo di pesce».
Sebbene il consumo ittico sia stato incoraggiato dalla comunicazione pubblicitaria, «ormai è chiaro che anche mangiando pesce non siamo sicuri di mangiar sano». Se poi si importasse anche da riserve sostenibili bisogna contare il costo ecologico di un’impronta di carbonio proveniente dall’altra parte del mondo. Insomma, urge presentare il cibo di mare come una delicatezza che ha un costo importante per gli oceani.
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