- «L’aria fuori è diventata irrespirabile. Fumo, polvere e odore di bruciato. Le bombe continuano a cadere». A parlare è Pavlo Makov, 63 anni, l’artista scelto per rappresentare l’Ucraina alla prossima Biennale di Venezia, nascosto in un rifugio di Kharkiv.
- Lui e il suo team è ancora determinato a partecipare alla Biennale. L’artista ha intenzione di esporre una rielaborazione di un suo vecchio progetto concepito all’inizio degli anni Novanta, intitolato Fontana dell’esaurimento. Si tratta di una piramide di 78 imbuti di bronzo che parlerà dell’acqua.
- Negli ultimi anni l’artista Kharkiv è tornato più volte sul tema della guerra. È il caso del libro d’artista Donrosa. Diario di un giardino di rose ucraino, omaggio alla città di Donetsk, nel Donbass.
«L’aria fuori è diventata irrespirabile. Fumo, polvere e odore di bruciato. Le bombe continuano a cadere». A parlare è Pavlo Makov, 63 anni, l’artista scelto per rappresentare l’Ucraina alla prossima Biennale di Venezia. Lo raggiungiamo telefonicamente allo Yermilov Center, spazio nei sotterranei dell’Università statale di Kharkiv, negli ultimi anni utilizzato per mostre di arte contemporanea. È lì che lui e altri artisti con le loro famiglie si stanno rifugiando dai bombardamenti delle truppe russe. Il collegamento internet non è buono, cade spesso, e il dialogo si sposta su Telegram. Ci promette che risponderà presto: «Non ora, però, perché sto dormendo molto poco».
La notte tra giovedì e venerdì, quando ancora si trovava a casa sua, l’ha passata a fare la guardia per poter svegliare al suono delle sirene moglie, figlio, nuora e madre di 92 anni. «I miei sentimenti in queste ore? Molto diversi. Dipendono dalla situazione, dalle notizie che riceviamo. Ma quello che prevale è l’orgoglio di essere cittadino ucraino. Lo sono sempre stato, anche se sono nato a san Pietroburgo da famiglia russa. Ma adesso mi sento più che mai cittadino dell’Ucraina. In un’altra situazione, un’affermazione del genere mi sarebbe suonata patetica. Ma oggi non lo è affatto».
Gli chiediamo qual è stata, finora, la circostanza più difficile. Risponde che non si tratta della prima sirena o la prima esplosione, ma il periodo di incertezza che ha preceduto l’attacco.
«L’invasione russa è in corso già da otto anni. Ora, semplicemente, il conflitto ha cambiato scala. Per chi vive qui era già chiaro, voi in Europa avete fatto fatica a vederlo. Adesso è davanti agli occhi di tutti. Ma noi, a questo momento, siamo arrivati pronti. Io non sono in grado di sparare, non sono addestrato. C’è chi lo farà per me, meglio di me. Ma la gente qui è pronta a resistere, ognuno farà tutto quello che può».
Nei giorni scorsi Makov e i tre curatori del padiglione dell’Ucraina, Lizaveta German, Borys Filonenko e Maria Lankro, hanno diffuso un comunicato: «L’Ucraina è stata invasa. Le nostre vite, le vite dei nostri cari e tutto ciò che rappresentiamo – pace, libertà, democrazia, cultura – sono state messe in pericolo».
La Biennale di Venezia
Il team afferma che fino al 24 febbraio i membri del gruppo si trovavano in diverse città del paese, Kharkiv, Kiev e Leopoli: «Al momento della pubblicazione di questa dichiarazione, non siamo in pericolo, ma la situazione è critica e cambia ogni minuto. Ora non siamo in grado di continuare a lavorare al progetto del padiglione a causa del pericolo per le nostre vite».
Eppure sono ancora determinati a partecipare alla Biennale, anche se questo non dipende più dalla loro volontà. Nel frattempo il curatore e gli artisti del padiglione della Federazione Russa hanno deciso che non parteciperanno 59esima esposizione internazionale d’arte.
Per Makov la partecipazione a Venezia non è soltanto un’occasione per far conoscere il proprio lavoro al mondo dell’arte: «Saremo come gli occhi del nostro paese dentro i quali tutti potranno guardare. Offriremo il nostro sguardo e, chi lo vorrà, potrà capire meglio non solo chi siamo noi, artista e curatori, ma anche cos’è l’Ucraina. Siamo un paese indipendente, uno Stato giovane. Sarebbe stata anche l’occasione per sfatare i miti stupidi che ci portiamo dietro dal periodo sovietico. Ma ora, dal giorno dell’attacco, questi miti sono stati già ampiamente spazzati via. Ma a quale prezzo?».
L’artista di Kharkiv ha intenzione di esporre alla Biennale una rielaborazione di un suo vecchio progetto concepito all’inizio degli anni Novanta, intitolato Fontana dell’esaurimento. Si tratta di una piramide di 78 imbuti di bronzo con due cannelli ciascuno.
Dell’acqua viene versata nell’imbuto posto al vertice e, colando in quelli sottostanti, si divide di volta in volta fino raggiungere la base piramidale in forma di gocce. L’opera si ispira alle infrastrutture fatiscenti tipiche delle città post sovietiche, all’indomani del crollo dell’Urss.
L’importanza dell’acqua
All’epoca l’approvvigionamento idrico era precario e a Kharkiv, dove l’artista vive da ormai quasi quarant’anni, nessuna delle fontane pubbliche funzionava. Una volta, racconta, un’incidente all’impianto di depurazione locale provocò un allagamento e un’interruzione di quattro settimane della distribuzione dell’acqua.
Un lavoro concepito tre decenni fa, ma che tocca temi di grande attualità, spiegano i curatori: «L’opera vuole denunciare non solo l’esaurimento delle risorse naturali, ma anche il burnout post pandemico, la spossatezza causata nelle persone dai social media e lo sfinimento delle popolazioni provocato dalle guerre». La fontana di Makov è la metafora di come la linfa vitale dell’uomo o della natura venga sprecata a causa di strutture, scelte o logiche disumane.
Quella prevista per Venezia, tuttavia, è un’opera che si distanzia dal modo consueto di esprimersi di Makov, che si è formato innanzitutto come incisore. Normalmente l’artista crea lavori a stampa usando due o più matrici di piccola dimensione, realizzate con la tecnica dell’acqua forte, il cui disegno viene impresso, in momenti successivi, su parti diverse dello stesso foglio.
Il risultato sono composizioni a volte molto complesse. Mentre nella stampa tradizionale la matrice di un’immagine viene usata per la stampa di diverse copie dello stesso lavoro, qui il processo porta alla realizzazione di pezzi unici su cui l’artista, poi, interviene con matite, inchiostri e altri materiali.
In un angolo del suo studio, al terzo piano dello stabile sovietico ancora oggi di proprietà dell’Unione degli artisti ucraini (senza la quale, durante il regime, non si poteva esercitare l’attività creativa) c’è la scrivania dove l’artista lavora alle matrici con il bulino, aiutandosi con una lente di ingrandimento. Accanto, a occupare gran parte dello spazio, c’è il grande torchio con cui realizza i lavori. Le matrici raffigurano alberi, piante o edifici, con cui le quali Makov compone paesaggi o mappe di città reali o immaginarie.
Donetsk e la rosa
Negli ultimi anni l’artista Kharkiv è tornato più volte sul tema della guerra. È il caso del libro d’artista Donrosa. Diario di un giardino di rose ucraino, omaggio alla città di Donetsk, nel Donbass. Il volume si ispira ai disegni e appunti di un appassionato di rose di Kharkiv che, tra il 2008 e il 2010, ha ricreato nella città russofona un giardino progettato nel XIX secolo e che, si dice, fosse stato pensato da paesaggisti inglesi sul modello di un girone dantesco.
“Donrosa”, crasi tra le parole “Donetsk” e “rosa” si apre proprio con i versi del Canto III dell’inferno: «Qui si convien lasciare ogne sospetto, / ogne viltà convien che qui sia morta. / Noi siam venuti al loco ov’i t’ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c’hanno perduto il ben de l’intelletto». Il giardino è visto come un labirinto a pianta centrale, composto da centinaia di roseti stampati uno a uno sullo stesso foglio.
L’opera è stata poi suddivisa in sezioni e impaginata in un piccolo volume tirato in mille copie. Si tratta di un luogo immaginario dove bellezza, dolore e follia convivono. Immagine di una città in guerra.
In un’opera profetica, intitolata Dorotea. Assedio di Kharkiv e realizzata tra il 2015 e il 2016, Pavlo Makov riproduce con una certa esattezza la pianta della città. Diverse tipologie di edifici si ripetono creando la trama delle strade.
In basso a sinistra, si riconosce, evidenziata con il colore rosso di una matita, la piazza principale, dove si scorgono le sagome di convogli militari. Dai camini di molte case sale il fumo. Sembra una documento antico, consunto dal tempo. Invece è un’opera che parla di un futuro prossimo, che si è trasformato in un presente tragico.
La prima volta che chi scrive ha visitato Makov nel suo studio è stata nell’estate del 2016. Sulla scrivania c’era una copia dell’edizione italiana de Le città invisibili di Italo Calvino.
A un certo punto l’artista ha aperto il volume e ha letto con il suo accento russo l’ultima pagina: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Ha alzato lo sguardo e ha aggiunto: «Ecco, è questo ciò che sto cercando di fare. E che in molti, in Ucraina, cercano di fare oggi».
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