È stata scelta per la sua prosa che «espone la fragilità umana», ma è uno stile che di continuo allude e tace. La presa dell’immaginario di Seul sull’Occidente: da Parasite al cinema alla serie Squid Game e ai Bts nel pop
«È solo un sogno» si legge più volte nel breve racconto Il frutto della mia donna ed è proprio una situazione di continua sospensione dal reale ad ammantare le opere della scrittrice sudcoreana Han Kang, nata nel 1970 nella città di Gwangju e poi cresciuta a Seul, insignita del Premio Nobel per la letteratura.
Nelle motivazioni si legge che Kang è stata scelta «per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana», ma dalle sue pagine non ci si deve aspettare una scrittura testimoniale, diretta e lampante, quanto invece una prosa sfuggente, che continuamente allude ai nodi dell'esistenza ma poi si abbandona al silenzio, lasciando al lettore, che difficilmente resiste a questa dolce declinazione dell'indagine della psiche umana, il compito di immaginare l'orrore, di figurarsi il peso e la sofferenza di scelte drastiche o la violenza che può riempire i gesti umani, quelli quotidiani e quelli che invece hanno a che fare con il corso della storia.
Per questo il sogno che viene evocato nel breve racconto Il frutto della mia donna (in Convalescenza, tradotto da Milena Zemira Ciccimarra per Adelphi che pubblica in italiano tutta la sua opera) è un'importante testimonianza del procedere della scrittura di Kang, che con le sue allusioni rende ancor più concreto ciò che viene lasciato taciuto: Kang racconta di una donna che, per eludere un'esistenza spenta in cui è privata della libertà, procede verso un annullamento di sé nella maniera più assurda immaginabile, trasformandosi in una pianta («presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, poter vivere solo di vento, sole e acqua»), via di fuga di «un'anima tormentata», letargo perpetuo in cui però il marito potrà ritrovare, per un istante, l'unione.
L’emancipazione di Yeong-hye
Questo racconto è un ottimo viatico all'opera della scrittrice perché sembra anche il nucleo originario del suo libro più famoso, La vegetariana (tradotto da Milena Zemira Ciccimarra), racconto di una donna che, improvvisamente, decide di non mangiare più carne mettendo in imbarazzo il marito e il padre, figure maschili che troveranno solo nella violenza una possibile risposta a questa scelta radicale, una vicenda che nuovamente si chiuderà con una sorta di trasformazione immaginifica.
La vegetariana però è anche il racconto doloroso di un tentativo di emancipazione femminile, vulnus della società sudcoreana basata sulla tradizione e in cui il vegetarianesimo quasi non esiste, che in tre atti mette in scena un processo di spoliazione totale.
Non ci si deve ingannare però perché la scelta dell'indimenticabile protagonista Yeong-hye non obbedisce a un desiderio di trovare requie dai sensi di colpa eliminando le proteine animali come spesso accade attorno a noi, ma si tratta piuttosto di testare i limiti dell'essere umano, valutare quanto le scelte radicali possano modificare noi stessi e chi ci sta intorno invitando anche il lettore a riflettere sul significato delle forme più estreme di rinuncia.
Non a caso gli accademici svedesi hanno sottolineato l'arte di Kang nell'individuare «le connessioni tra corpo e anima, i vivi e i morti», lodando il modo in cui la scrittrice affronta «traumi storici e insiemi invisibili». Attorno a questo aspetto ruota l'altro grande libro di Kang, Atti umani (tradotto da Milena Zemira Ciccimarra), che mostra bene questo approccio nei confronti della realtà: Atti umani racconta infatti la rivolta popolare di Gwangju contro la dittatura di Chun Doo-hwan e, in particolare, la giornata del 15 maggio del 1980 quando la protesta fu soffocata nel sangue dall'esercito sudcoreano, ma lo fa in maniera peculiare, unendo perdita personale e dolore collettivo affidando il racconto a protagonisti diversi, due quindicenni che incontrano la morte, una madre che anche negli anni successivi non si dà pace per aver fatto uscire il figlio dopo il coprifuoco, una ragazza che si occupava di rendere presentabili i cadaveri ammassati in una palestra per le famiglie che andavano lì per riconoscerli, un'operaia e un prigioniero che ancora portano nella mente le violenze subite fino all'ultimo capitolo in cui prende la parola la scrittrice stessa che riporta i suoi ricordi di bambina.
L’immaginario di Seul
Le vicende raccontate in Atti umani rendono bene l'idea della distanza che separa la Corea del Sud dall'Europa perché un fatto che è centrale nella storia del paese è quasi sconosciuto in Occidente: negli ultimi anni però la cultura sudcoreana sta facendo breccia in maniera decisa anche nel mondo occidentale (anche il premio Nobel per la letteratura spesso si è preso la briga di muovere gli sguardi verso luoghi lontani), in particolare attraverso cinema, serie televisive e musica che tra premi importanti e successi di pubblico si stanno imponendo come punti di confronto imprescindibili per comprendere le oscillazioni del gusto contemporaneo.
Se per il cinema i gioielli provenienti dalla Corea del Sud rispondono a nomi di registi di primo piano come Kim Ki-Duk, divinità a Venezia e a Cannes, autore di capolavori come Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, Ferro 3 – La casa vuota o, più recentemente, Bong Joon-ho, regista di Madre e Snowpiercer ma, soprattutto, premiato con il premio Oscar per Parasite, sono forse le serie tv di grande consumo e la musica a dare bene la misura di questo successo planetario.
Per le serie il riferimento è ovviamente a Squid Game, tragico gioco di sopravvivenza dove più di quattrocento persone si sfidano per conquistare lo straordinario montepremi in denaro, mentre per la musica, il K-Pop ormai globale, la Corea del Sud fa rima con BTS (anche se il video arlecchinesco di Gangnam Style di Psy è stato il primo video a raggiungere 1 miliardo di visualizzazione su Youtube), il gruppo che ha demolito ogni record grazie a una fandom impressionante che oscilla tra empatia, adorazione e isteria.
Un desiderio di dialogo
La fascinazione per ciò che è lontano dalla nostra cultura e dal nostro agire (si legga l'articolo di Michela Murgia sulla caduta di Kim Tae-hyung su un red carpet e sul comportamento dei suoi compagni dei BTS ora in Ricordatemi come vi pare, Mondadori) è certamente una delle molle di questo interesse: ciò che affascina è la natura di un linguaggio così diverso, una differenza che si fa portatrice di qualcos'altro, di un desiderio di dialogo e di nuovi punti di vista.
È anche questo uno dei nodi della ricerca di Kang che nell'ultimo romanzo tradotto in italiano, L'ora di greco (traduzione di Lia Iovenitti), indaga cosa significa comunicare attraverso le vite di una donna che, per un evento traumatico e non per la prima volta della sua vita, non riesce più a parlare e a cui è stato recentemente tolto il figlio, e un uomo, che incentra i pochi desideri rimasti su una donna che non può più avere e che sta diventando pian piano, e inesorabilmente, cieco.
I percorsi di questi due personaggi si incroceranno dapprima durante il corso di greco antico del titolo (una lingua scomparsa, anch'essa testimonianza di una menomazione del linguaggio) e poi in una magica notte nel caldo insopportabile di Seul rendendo evidente come ciò che conta più di ogni altra cosa è proprio il linguaggio, bramato dai protagonisti che vivono una parabola distruttrice come ultima ancora per resistere, insieme.
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