«Con un deca non si può andare via», ma si può comunque fare la storia. È stato vero oltre trent’anni fa con l’improvviso successo di due ragazzi di Pavia; ed è ancor più sorprendente oggi, grazie a una serie tv che ha letteralmente rimesso in circolo la stessa travolgente ossessione di allora.

Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883 è stata tra le serie più amate nella storia di Sky Italia, la più vista tra i prodotti original della piattaforma al debutto, con oltre 1 milione e 300mila spettatori medi a puntata, senza contare le visioni on demand, il dibattito generato sui social e nel discorso pubblico mainstream, le impennate degli accessi a brani e dischi su Spotify, i palazzetti di nuovo stracolmi per Max Pezzali e le sue canzoni capaci di unire le generazioni. Un autentico fenomeno che merita di essere indagato proprio per la sua natura multiforme, il suo travalicare mondi e industrie della comunicazione.

Viaggio per l’età adulta

Come noto, la serie racconta la vicenda di Max Pezzali e Mauro Repetto, due compagni di liceo nella Pavia di fine anni Ottanta e inizio Novanta, della loro passione per la musica e del sogno di entrare in quel mondo dorato partendo da una tavernetta sotto la casa dei genitori.

Ma l’affresco che ne fa Sidney Sibilia, produttore insieme a Matteo Rovere e regista dei primi due episodi (gli altri sono diretti da Alice Filippi e Francesco Ebbasta), non è quello didascalico del romanzo biografico, quanto piuttosto un delicato e gradevole viaggio nei desideri di due ragazzi che sognano di lasciare la provincia, luogo di monotone abitudini dove gli echi del mondo musicale arrivano solo attraverso le cassette del walkman o i negozi di dischi. In una placida e ombelicale Pavia, tra il Ticino e le strade del quartiere Borgo Basso, i destini di Massimo Pezzali (interpretato da Elia Nuzzolo) e Mauro Repetto (Matteo Oscar Giuggioli) s’incrociano per caso.

Timido, impacciato e appassionato di punk il primo; estroverso, esuberante e in cerca di una spalla l’altro. Quella che si dipana tra interminabili viaggi in motorino nella campagna pavese (rigorosamente “sempre in due” come avrebbero poi cantato), serate al bar tra amici e ragazze e salette di registrazione in cui trascorrere ore sottratte allo studio, è una storia come tante di quegli anni di svolta.

Una storia che la mano di Sibilia, tra i pochi registi italiani a saper affrescare con garbo e ironica malinconia le pulsioni dei giovani di ieri e di oggi, riesce paradossalmente a spogliare dell’aura di leggendarietà enfatizzata dal titolo per restituirne, al contrario, l’essenza più pura e ordinaria.

Max e Mauro sono ragazzi come tanti che frequentano distrattamente e svogliatamente la scuola e che svolgono lavoretti saltuari. Max aiuta i genitori nel negozio di fiori (lo si vede anche consegnare rose rosse inviate da uno sconosciuto spasimante a un’avvocatessa che lavora nel mondo delle videocassette e dell’audiovisivo e che risponde al nome di Maria De Filippi, circostanza più volte confermata come vera dagli stessi protagonisti); Mauro è brillante, intraprendente ma sembra sempre sfuggirgli qualcosa per eccellere e troverà nell’amico il tassello mancante della sua vita.

Hanno ucciso l’uomo ragno è una serie che somiglia molto a un romanzo di formazione, a quello che gli anglosassoni chiamano coming-of-age, il viaggio verso il diventare adulti; a fare da sfondo a un rito di passaggio che per Max e Mauro scorre rapido e improvviso bruciando le tappe, non è solo la Pavia romanica e underground, ma tutto l’iconico immaginario anni Novanta che Sky aveva già esaltato con la serie Un’estate fa e che qui diventa ricercato corredo a supporto della narrazione.

I walkman, il motorino Ciao, le VHS, i primi computer, i campionatori, i telefoni della Sip, non solo ci immergono in quel sempre più diffuso “ricatto emotivo della nostalgia”, ma ci aiutano a capire quanto in quegli anni la tecnologia abbia davvero aiutato e contribuito a trasformare un’intuizione in un successo, una curiosità giovanile nell’avveramento di un sogno.

La forza degli 883 è stata tutta in un’apparentemente banale, ma straordinariamente complessa capacità di cantare con leggerezza le speranze e la quotidianità di generazioni nate tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Novanta (gli X e i Millennials, direbbero i manuali), che non avevano narrazioni se non quelle imposte e che tumultuosamente provavano a uscire allo scoperto con valori, riferimenti ed estetiche del tutto nuovi.

La serie è un percorso tra i successi della prima fase della band, da Non me la menare a Hanno ucciso l’uomo ragno, il segno tangibile dei sogni di due “maldestri” ragazzi di provincia per cui Milano era New York, che si ritrovano a condividere l’appartamento con Fiorello e Sandy Marton, che alle sirene dello star system oppongono (soprattutto il Max di Elia Nuzzolo) la fierezza di una vita normale.

Un understatement che è diventato negli anni una delle cifre dello stile di Pezzali, a cui viene riconosciuto il pregio di non prendersi troppo sul serio, di essere rimasto tutto sommato legato ai riti della birra scura, dei motori, delle amicizie del bar. La seconda stagione è già stata annunciata: si chiamerà, naturalmente, Nord Sud Ovest Est, come il secondo album della band, quello della consacrazione nel 1993. E sarà un altro tuffo dentro una stagione irripetibile.

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